IL DRAMMA DEI CRISTIANI PALESTINESI

set 7, 2016 0 comments
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Di Daniela Lombardi
“Tra i due litiganti, il terzo soffre”.  Il vecchio detto va totalmente cambiato, se rapportato alla pesante realtà vissuta dai cristiani palestinesi. Emarginati tanto dagli israeliani quanto dai palestinesi musulmani, hanno finito col diventare una “terza parte” in un conflitto che li schiaccia senza creare attorno a loro la solidarietà né dei filoisraeliani, né dei  filopalestinesi.
Quasi un corpo separato da tutti e destinato ad essere rigettato proprio da quella terra che dovrebbe essere la loro culla. Da un lato, ci sono gli israeliani che chiedono loro permessi speciali per una serie di attività e pongono gli stessi limiti imposti ai palestinesi musulmani.
Al contempo, i loro problemi non rappresentano la priorità per l’Autorità palestinese, che da Ramallah elargisce aiuti economici alla popolazione di religione islamica, mentre ne riconosce ben pochi ai cristiani. Una vita, insomma, trascorsa in un limbo che non consente di esprimere non solo la fede, ma la personalità in tutti i suoi significati.
Non è un caso se proprio nella Terra Santa, dove Gesù visse e predicò, il numero di cristiani sta precipitando in maniera vertiginosa. I cristiani fuggono dalla Cisgiordania, mandano i loro figli a studiare fuori, quando possono. A Betlemme, città della Natività, sono ridotti a meno del 12% e tendono a diminuire ancora.
Il motivo, lo spiega chi ha deciso di resistere, di restare, di provare a difendere le sue radici cristiane nel luogo in cui queste per la prima volta hanno attecchito.
Claire Anastas, cristiana palestinese nata a Betlemme, non intende abbandonare quella che considera la sua patria anche in senso spirituale. Il muro che ha tagliato in due Betlemme a causa del conflitto, ha separato per sempre lei e la sua famiglia da una parte di quella che consideravano la loro città, oltre che da Israele. Oggi affacciarsi alle finestre della casa degli Anastas, famiglia composta da Claire, suo marito e due figli, significa trovarsi davanti “the wall”, con i suoi affreschi che parlano di guerra e oppressione, e non più la tomba di Rachele. Quest’ultima è ormai fuori dalla zona palestinese di Betlemme e tentare di recarvisi vuol dire dover attraversare il check-point che dalla città porta a Gerusalemme, subendo controlli di tutti i tipi. Per questo, molti cristiani hanno rinunciato a visitare il mausoleo dedicato alla moglie di Giacobbe ed il culto viene praticato solo dai fedeli ebrei.
Questo è solo uno degli esempi di come il conflitto abbia tagliato il legame dei cristiani di Palestina con le storie bibliche e, parimenti, con alcuni luoghi del Nuovo testamento. Anche i visti e i permessi che servono per andare a Gerusalemme, nei momenti più caldi possono essere negati. È per questo che Claire ha dovuto soffrire molto, la scorsa Pasqua, per non essere potuta andare al Santo sepolcro. L’atmosfera incandescente accesa da quella che  è stata definita “intifada dei coltelli” non consentiva spostamenti dei palestinesi ed i permessi per visitare la città Santa sono stati rifiutati.
“I miei antenati hanno contribuito a rendere uno splendore la basilica della Natività ed io posso godere per fortuna almeno della sua bellezza, ma tanti luoghi mi sono proibiti. Così mi rassegno a pregare da lontano e a sperare che i miei figli, un giorno, abbiano la libertà di movimento che ora non hanno”, lamenta Claire mentre si inorgoglisce nel ricordare che tra le mani sapienti dei veneziani che restaurarono la basilica nel 1478, ci sarebbero quelle dei suoi avi. Claire infatti ha origini italiane. Ma non sono solo le radici religiose ad essere state strappate dal conflitto arabo-israeliano. Claire lamenta infatti un’emarginazione che per i cristiani arriva da più “fronti”.
“Se con gli israeliani abbiamo la difficoltà ad ottenere permessi per muoverci e ci troviamo a vivere come animali in gabbia, con l’Autorità palestinese, alla quale dovrebbe tenerci uniti la questione territoriale, ci sono altri tipi di problemi”, dice. Il motivo è presto spiegato.
Gli aiuti economici per i palestinesi musulmani, soprattutto nei periodi di maggiore difficoltà, arrivano da Ramallah. I palestinesi cristiani non interessano altrettanto. A questo si aggiunge una sorta di solidarietà che porta la comunità islamica ad aiutare i suoi membri. “I vicini di casa islamici si aiutano tra loro con il passaparola sui lavori disponibili, oppure indicando ai turisti i posti in cui comprare i ricordi di Betlemme. Il mio negozio viene indicato solo da pochi amici che mi vogliono bene al di là della religione”.
Nonostante la situazione, Claire si ostina a vendere oggetti in legno di olivo, l’eccellenza della terra di Palestina, che rimangono a testimonianza di una cristianità tutta da tutelare: croci, presepi, stelle comete. Poi  la croce di Gerusalemme, simbolo dell’unità tra i cristiani che ormai sono ridotti a cercare piccoli espedienti per sopravvivere.
Non è un caso se la casa di Claire, trasformata in un albergo, ha i prezzi più bassi che si possano trovare in tutto Israele e in tutta la Palestina. “Finché voi turisti siete da me, l’attenzione sulla nostra situazione non cala. Nessuno può mandarci via, perché creiamo movimento e siamo benvoluti. L’unica cosa che importa a tutti sono i soldi e l’immagine. Nessuno vuole spaventare i visitatori o fare ufficialmente la parte del cattivo. Il mio timore è che, se voi non venite più, coglieranno l’occasione per prendere ancora più spazio per una zona “libera” attorno al muro”.
I cristiani di Cisgiordania e anche quelli di Israele, infatti, vengono spesso incoraggiati ad andare a vivere altrove. Probabilmente, in un conflitto già complesso, sono una variabile che complica ulteriormente la situazione. Il cristiano, insomma, piace come visitatore, come dispensatore di risorse economiche, ma come cittadino che chiede diritti e aiuto è solo un fastidio in più con cui dovere fare i conti.

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