La previsione di John Plender: “Una nuova crisi è in arrivo, e l'eurozona non reggerà”

nov 22, 2016 0 comments
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Intervista di Dario Ronzoni a John Plender
Di Dario Ronzoni
Presto ci sarà una nuova crisi. L’eurozona rischia di collassare davvero, e la sua divisione in due o tre parti è quasi un destino. Sono le previsioni di John Plender, giornalista ed editorialista del Financial Times, in Italia per la promozione del suo libro La verità sul capitalismo (Bollati Boringhieri), presentato nel ciclo di incontri di Bookcity insieme al giornalista del Corriere della Sera Danilo Taino e Giordano Martinelli, vice presidente di AcomeA sgr, partner della conferenza.
Il suo pensiero muove da una lunga analisi dei fatti storici del capitalismo, dal suo lavoro di editorialista e da quello di consulente a capo dell’Omfif (Official Monetary and Financial Institution Forum). Raccoglie informazioni sulle direzioni dei mercati, le legge in filigrana e avanza critiche severe. Il sistema, spiega, non ha saputo riformarsi abbastanza dopo la crisi del 2008. E per “riforma” si intende l’inserimento e l’applicazione di regolamenti più rigidi ed efficaci, in grado davvero di limitare il potere speculativo delle banche. Può sembrare che più libertà generi più ricchezza, ma in realtà si rende più vulnerabile il sistema economico. Stando così le cose, c’è da aspettarsi una nuova crisi.
Al centro delle polemiche degli ultimi anni si sono imposti due grandi protagonisti: la globalizzazione e il neoliberismo. Anche lei è tra i critici.
Sì. Il neoliberismo, come scrivo nel mio libro, inteso come il sistema pionieristico e innovativo attuato dalla fine degli anni ’70 in poi mostra le corde. Chiariamoci: le novità introdotte da Ronald Reagan e da Margareth Thatcher negli Usa e in Gran Bretagna, all’epoca, erano indispensabili: serviva più libertà nel commercio, negli scambi, nelle regole. Il comparto economico aveva bisogno di uno shock, ed è stato senza dubbio un beneficio.
Ora però le cose sono diverse.
Adesso il quadro è cambiato: è stata sovrastimata la capacità della globalizzazione di portare benefici ai Paesi più sviluppati, e molte persone si sono trovate in difficoltà nel momento in cui hanno dovuto affrontare tutti i traumi che ne sono derivati.
In particolare?
Si è rotto il collegamento, fino a quel momento vero, tra produttività e guadagni. Più e meglio si produceva e più aumentavano i salari. Con la globalizzazione non è più così.
E questo è la ragione alla base delle reazioni rabbiose che si sono manifestate nelle elezioni americane e con la Brexit.
Esatto. Senza contare che l’iper-finanziarizzazione ha avuto dei vantaggi ma anche dei costi molto alti.
Quali costi?
Il senso della finanza è l’investimento dello sviluppo. Con la finanza degli algoritmi, delle dinamiche speculative a breve termine è venuto meno ogni tipo di utilità sociale. Tutta l’economia è condizionata da questa visione, cioè dai criteri ristretti della finanza. Facciamo un esempio.
Ecco.
Tutti sono scandalizzati dagli alti stipendi dei Ceo. Eppure non sono regalati: sono il risultato di un calcolo, che in sostanza è legato all’aumento del valore del titolo dell’azienda in seguito alle decisioni del manager. Questo ha senso, ma induce i vertici a fare scelte di breve periodo per aumentare il valore nominale e scoraggia gli investimenti più costosi ma, forse, davvero necessari e innovativi. Questa è una conseguenza. Per questo dico ci vogliono più regole. Ma è tardi e, secondo me, presto ce ne accorgeremo.
Intende con un’altra crisi?
Sì. Si è fatto troppo poco, e quel poco che si è fatto è stato solo per limitare i danni. La questione è ancora aperta.

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