Lo spettro del populismo tra le rovine della democrazia

dic 28, 2016 0 comments
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Di Spartaco A. Puttini *

Uno spettro si aggira per l’Europa (e non solo): è lo spettro del populismo. Tutti i potenti d’Europa si alleano per dare spietatamente caccia a questo spettro. Qual è il partito di opposizione che i suoi avversari al potere non abbiano colpito con la nota ingiuriosa di “populista”? e qual è il partito di opposizione che a sua volta non abbia ricambiata l’accusa, respingendo l’infamante designazione di populismo, o sugli elementi più avanzati dell’opposizione stessa, o sugli avversari apertamente reazionari?
Il Manifesto del 1848 di Marx non iniziava proprio così, ma iniziava in modo molto simile.
Il termine di populismo è tornato prepotentemente di moda ed è divenuto un elemento consueto del dibattito politico. Tuttavia l’accusa di essere populista viene impugnata quasi unicamente per intento polemico e denigratorio, come improprio sinonimo di demagogia. A ben guardare sotto questa etichetta vengono accomunati i movimenti più disparati per collocazione spazio-temporale e per colore politico.
Si dice populismo e si fa riferimento a tutto e al suo contrario nello stesso tempo, o quasi. All’ombra del populismo vengono catalogati fenomeni ed esponenti politici diversi per provenienza, cultura politica, propositi. La cannibalizzazione di un fenomeno così complesso in un dibattito semplificatorio ha provocato senza dubbio confusione. Tanto che qualcuno, non distinguendo chi fosse populista o chi non lo fosse (a destra come a sinistra, all’opposizione come al governo) si è chiesto se la definizione avesse ancora senso. 
La definizione di “populismo” non è scontata nemmeno a livello accademico e la letteratura sul fenomeno è oramai sterminata [1]. In essa stanno fianco a fianco saggi di approfondimento su fenomeni storici ormai remoti (Herzen e il populismo russo; il populismo nordamericano che per una stagione ha sfidato i grandi partiti egemonici nella politica statunitense; i variegati fenomeni latinoamericani: peronismo, getulismo etc.; le esperienze del Terzo mondo sul versante progressista e quelle dell’Occidente sul versante reazionario); opere di inquadramento teorico del problema; studi di caso che cercano di individuare a partire dal basso il bandolo di un’intricata matassa. 
Nella maggior parte dei casi le definizioni finiscono per dover ammettere un numero talmente rilevante di eccezioni alla propria griglia di classificazione da venire messe duramente alla prova. Chi vede nel populismo un fenomeno legato alla comparsa di un determinato gruppo sociale (la piccola proprietà contadina ad es.) deve prendere in considerazione la presenza dello stesso fenomeno in contesti di urbanizzazione e industrializzazione intensiva. Chi ne vede un prodromo dei regimi autoritari deve confrontarsi con la realtà di teorie tradizionaliste ed elitiste che ispirano regimi autoritari che si basano non solo sull’oppressione delle classi popolari, ma sulla loro vera e propria passivizzazione e deve prendersi carico di spiegare il comparire e il permanere di fenomeni e movimenti populisti in un contesto democratico e pluralista, quando non un loro ruolo significativo negli stessi processi di democratizzazione di processi e istituzioni politiche. Chi li vede come movimenti di opposizione all’establishment non può ignorarne il ruolo che in alcuni casi possono giocare nell’istituire nuove articolazioni di potere, né il fatto che sempre più spesso siano gli stessi leader di forze politiche tradizionali a scimmiottare strategie del consenso e retoriche populiste. Ci sono studiosi che riducono il fenomeno a uno stile, a un’inclinazione discorsiva che semplifica la complessità del dibattito politico per parlare alla pancia dell’elettorato. Anche se è la stessa dicotomia tra pancia e testa, tra istinto e ragione che forse andrebbe chiamata in causa. Quando gli operai del Novecento, a partire dai propri bisogni, maturavano una coscienza di classe stavano orientandosi con la pancia o con il cervello? Chi guarda ai movimenti populisti come a fenomeni esclusivi di una realtà geografica li vedrà comparire all’altro capo del mondo. Chi vede nel populismo il rigurgito di un mondo arcaico, premoderno e antilluminista deve fare i conti con il fatto che anche il populismo, come la democrazia, affonda le sue radici nella convinzione che la sovranità appartiene al popolo. C’è qualcosa di più moderno? Oppure con il fatto che sembra godere di ottima salute non solo nelle periferie (latine e non) dell’Occidente ma anche nella culla del pensiero razionalista e illuminista. Come per ogni fenomeno politico, tanto più in questo caso, è necessario analizzare contestualizzando e storicizzando. Tuttavia il termine ha una sua indubbia fortuna e persistenza. Indica movimenti che si rifanno al popolo come unico depositario della sovranità da cui è stato espropriato e che deve essere riscattato da un presente di tradimento e oppressione. Il fatto che sotto il mantello del “popolo” e dietro il telo dell’”oppressione” sia possibile giocare con un’ampia gamma di valori e suggestioni spiega come mai lo spettro dei fenomeni populisti sia ampio, diversificato e confondente. L’idea di popolo (come l’idea di nazione del resto) può avere diverse connotazioni. Il popolo dei populisti non è sempre lo stesso. Né sono gli stessi i suoi nemici. Per tutti i populisti il popolo è la fonte di autorità che si trova tartassata ed espropriata, “il sovrano prigioniero” di una democrazia rappresentativa che non lo rappresenta, inserito ed asservito ad un sistema che ne deturpa i valori e lo porta fuori strada. Detto questo ci si trova ad avere a che fare con fenomeni completamenti diversi se il popolo in questione viene immaginato sulla base di una presunta omogeneità etnica finendo con l’escludere su questa base oppure se viene immaginato come l’insieme delle classi diseredate della società. Il populismo è forse “una cosmologia, una visione del mondo per lo più implicita ma dalla straordinaria forza evocativa, dalle radici antiche e che trova la sua espressione più coerente nell’epoca della società di massa e della democrazia […] Il populismo, infatti, è un immaginario che con diverse forme e intensità suole permeare molteplici attori di una determinata società in particolari scorci storici” [2]. 
Pur senza essere un’ideologia strutturata il populismo ha un suo baricentro attorno al quale ruotano galassie di movimenti e istanze diverse, di segno anche opposto. Fortunatamente, almeno a livello scientifico, sembra finita l’era in cui l’etichetta populista veniva utilizzata per connotare unicamente il maquillage di gruppuscoli della destra radicale. C’è stato ad esempio chi, senza trasvolare l’Atlantico, ha sottolineato come la “rappresentazione idealizzata di un popolo sfruttato ma unito, laborioso, e collettivamente produttivo, profondamente giusto e buono, virtuoso e invincibile” abbia rappresentato un elemento ricorrente nella sinistra francese [3]. Certamente il popolo dei populisti è sempre raffigurato come un blocco compatto, senza incrinature. Ma anche questo non dovrebbe impressionare più di tanto: quando si cerca di costruire un fronte politico è inevitabile che gli elementi di differenza all’interno del blocco che si cerca di costruire vengano tenuti sotto traccia rispetto alla contraddizione che oppone al blocco antagonista, che viene invece drammatizzata. Anche la riduzione del fenomeno all’apoteosi del legame tra il leader e le masse, per quanto rappresenti spesso un elemento ricorrente, se non il vero e proprio momento di sublimazione della raffigurazione della volontà unitaria del popolo, non andrebbe forse inseguita con eccessivo entusiasmo come pista classificatrice. Nel corso delle democrazie moderne vi sono state spesso leadership forti che non hanno tracimato dal sentiero democratico costituzionale: Roosevelt, De Gaulle, per non fare che alcuni esempi. Ai giorni nostri, senza voler fare accostamenti stridenti o irrispettosi, il processo di affermazione e costruzione mediatica delle leadership non è certo prerogativa esclusiva dei populisti, veri o presunti che siano. Anzi, il processo di personalizzazione della politica o i rigurgiti di bonapartismo postmoderno [4] non sono altro che la manifestazione più eclatante della fine del sistema della democrazia moderna basata sull’intermediazione dei partiti di massa e sul confronto tra valori-programmi per la gestione degli affari della comunità. 
Il momento populista
I fenomeni populisti hanno un loro momento di fortuna: il momento in cui sono più stridenti le promesse non mantenute della democrazia, in cui per un complesso di questioni sociali, economiche e politiche gli equilibri consueti di una comunità vengono scossi fino alle fondamenta. Allora diviene sempre più senso comune la percezione della distanza che passa tra i valori e le garanzie che una comunità dovrebbe garantire e quello che il patto sociale non riesce più a mantenere. In questo iato si materializza insoddisfazione e estraneità. Il popolo sovrano appare così come il sovrano prigioniero. Il paradosso della democrazia moderna, per cui la sovranità risiede nel popolo ma il popolo può esercitarla solo tramite l’intermediazione della rappresentanza diviene stridente nel momento in cui i processi consueti della rappresentanza entrano in crisi e i soggetti che dovrebbero veicolare le istanze dal basso verso le istituzioni perdono il loro smalto e la loro legittimità. E’ allora che i movimenti populisti hanno il loro momento di fortuna, come ha sottolineato nei suoi studi Ernesto Laclau. Quello che stiamo vivendo, con tutta evidenza, è uno di quei momenti.
Le righe che seguono non vogliono avere la pretesa di illustrare un fenomeno su cui ben altri hanno indagato nel corso di un numero rilevante di anni e di studi. Vuole essere più semplicemente un sasso nello stagno volto a contestualizzare il fenomeno e a porlo all’attenzione della sinistra di classe sottraendolo ai pregiudizi e alle incomprensioni che spesso lo circondano. Essendo una realtà la sinistra di classe deve poterlo leggere, analizzare e discutere a modo suo, con i suoi occhi, non con quelli necessariamente diversi di altri punti di osservazione.
I populisti sono spesso dipinti come il pericolo delle democrazie, anche se nel loro riferimento alla volontà popolare si cela una parentela prossima con la democrazia, alle cui forme storiche concrete viene “semplicemente” imputato di non mantenere le promesse che ha fatto. Più opportuno sarebbe dire che sono antitetici alla visione liberale della democrazia. Allora è più che opportuno chiedersi, quale sia questa visione e soprattutto in fatto di democrazia a che punto siamo. La visione liberale della democrazia è una visione riduttiva e per tutto il corso dell’Ottocento e del Novecento liberalismo e democrazia si sono scontrati duramente [5] prima di trovare una fragile sintesi sotto la pressione delle masse lavoratrici risvegliate dal socialismo. Inutile sottolineare che la sintesi è durata quanto è durata la sfida del socialismo. Tramontato il sole dell’avvenire, a farla da padrona ovunque in Occidente è stata una reazione liberale che ha scardinato, dall’economia al welfare, alla politica i puntelli avanzati conquistati dalle classi popolari nel corso di una durissima lotta per l’affermazione dei propri diritti. E’ al solo scopo di incardinare i nuovi rapporti di forza favorevoli al capitalismo globalizzato che sono state attuate tutte le controriforme degli ultimi 30 anni. Veri e propri passi indietro camuffati da novità e da scelte tecniche e sapienti al solo scopo di darsi quella patente di oggettività buona solo a costruire un consenso per far accettare la sconfitta e la reazione. Il ruolo subalterno avuto in questo dalle forze di riferimento tradizionali del movimento operaio spiega in gran parte la crisi di legittimità attraversata dagli strumenti tradizionali dell’articolazione democratica e il vuoto dal quale sono sorte e possono sorgere le sfide populiste. Sfide che irrompono dunque su un terreno dal quale la democrazia moderna è già stata espulsa di fatto e costretta in un angolo dalla reazione liberale. E’ contro tale stato di cose (e grazie a tale stato di cose) che avanza il populismo, certo non sempre con l’intenzione di costruire una nuova dialettica più democratica o con la volontà di riscattare una classe operaia che andrebbe comunque ridefinita. 
Non può pertanto stupire il sorgere, in questo contesto, di appelli sempre più frequenti, provenienti da realtà e personalità diverse per vissuto e percorso, a valutare l’ipotesi di un populismo democratico e progressista, per non lasciare ancora orfane le classi popolari di una proposta politica che intercetti i loro bisogni, per non lasciare ulteriore terreno alla demagogia di forze reazionarie di destra. Se in America Latina per le forze progressiste la declinazione a sinistra del populismo sfonda una porta aperta (da una costola del movimento peronista a Hugo Chavez) e se in Europa la questione inizia ad essere posta (in Spagna da Podemos e in Francia da Mélanchon), l’Italia resta un passo indietro. In questa arretratezza fa presa (fino a un certo punto) il Movimento 5 Stelle, con tutte le sue irrisolte ambiguità. Le due proposte che al momento paiono più strutturate per interrogare su questo terreno quella che un tempo veniva definita la “sinistra” (prima che questo termine indicasse un lato del bipolarismo del sistema liberale della Seconda repubblica, i D’Alema, i Renzi, etc…) sono il saggio di Carlo Fomenti, La variante populista e il manifesto per un populismo democratico Senso comune. Due proposte in sintonia con la necessità di superare i pregiudizi su euroscetticismo e questione nazionale.

Rileggere Laclau

Ernesto Laclau è senza dubbio colui i cui studi hanno influenzato maggiormente la proposta di una strategia populista per il rilancio di una politica progressista e antagonistica. Militante della sinistra peronista (un’esperienza cardinale che spiega parecchio della sua elaborazione), Laclau vede nel populismo un momento che partendo da un contesto di crisi cerca di articolare in un fronte popolare le diverse domande sociali provenienti dal basso che non trovano ascolto e non vengono recepite dalla dimensione politica ufficiale. Il populismo di Laclau è la strategia di costruzione di un immaginario comune tra le domande irrisolte che sappia articolare il confronto politico polarizzando in due campi la società. Sulla base di una narrazione (vero e proprio surrogato dell’ideologia) che stabilisce delle relazioni di equivalenza all’interno del campo popolare la strategia populista viene intesa come strategia egemonica per la costruzione di un blocco che sappia connettere le domande popolari eterogenee per metterle in marcia sulla base di un’identità comune.

* L'articolo è apparso in “Gramsci oggi” rivista on line, dicembre 2016


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