Il 7 ottobre del 2023, il giorno in cui i terroristi di Hamas hanno massacrato 1,200 israeliani, in realtà dura da trent’anni. Da quel 1994 in cui, in seguito e a causa degli Accordi di Oslo dell’anno prima, comincia a succedere quanto segue. Hamas scatena una serie di sanguinosi attentati suicidi in Israele: autobomba contro un autobus a Afula, 9 morti e 40 feriti; 6 aprile, bomba su un autobus in sosta, 6 morti e 35 feriti; 19 ottobre, autobomba contro un autobus nel centro di Tel Aviv, 23 morti e 50 feriti. E poi ancora: 22 gen 1995, a Netanya due terroristi suicidi si fanno esplodere e uccidono 21 persone, 60 i feriti; 24 luglio, nel centro di Tel Aviv, un terrorista si fa esplodere a bordo di un autobus, 7 morti, 30 feriti; 21 agosto, a Ramat Eshkol un kamikaze palestinese si fa esplodere su un autobus, 5 morti e 100 feriti. Arriviamo al 1995, il 4 novembre: durante una manifestazione a sostegno degli Accordi di Oslo, a Tel Aviv, il premier Yitzhak Rabin, che aveva firmato con Yasser Arafat gli Accordi di Oslo ed era per questo bersagliato da una vera campagna d’odio da parte dell’ultradestra e del partito Likud, la cui opposizione in Parlamento era guidata dal 1993 da Benyamin Netanyahu.
A uccidere Rabin è Ygal Amir, un colono estremista che negava la possibilità di qualunque trattativa con i palestinesi, considerata un cedimento e, ancor più, un peccato rispetto alla Terra di Israele. Di fatto, Amir era l’antesignano dei vari Ben Gvir e Smotrich con cui ora governa Netanyahu. Dopo l’omicidio, anche a causa della scomparsa di un leader carismatico come Rabin, il sostegno per gli Accordi di Oslo comincia a calare. Il resto lo fa Hamas con altri attentati: 25 febbraio 1996, due attentati a Gerusalemme e Ascalona con 28 morti; 3 marzo, un kamikaze palestinese fa esplodere una bomba su un autobus nel centro di Gerusalemme, 19 morti; 4 marzo, esplosione all’ingresso del centro commerciale Dizengoff, a Tel Aviv: 13 morti, 130 feriti. Non per caso, quindi, il 29 maggio di quell’anno Netanyahu vince le elezioni e diventa il più giovane primo ministro nella storia di Israele.
Le sorti di Netayahu e quelle di Hamas sono intrecciate da sempre. Ed è ormai noto, grazie anche alle inchieste dei media israeliani, che il premier dello Stato ebraico ha concretamente collaborato a sostenere e rafforzare il movimento radicale (si veda qui e qui) fondato nel 1987 dallo sceicco Ahmad Yassin, provvedendo anche a canalizzare i milioni in arrivo dal Qatar per garantirsi che mai e poi mai l’unità tra palestinesi sarebbe confluita verso l’obiettivo di uno Stato indipendente. Simul stabunt vel simul cadent, se cade l’uno cade l’altro. Lo dimostra l’infinita quantità di dubbi e di ombre che circondano l’esitante (eufemismo) reazione israeliana all’attacco terroristico del 7 ottobre 2023 (si veda qui e il dettagliato articolo di Roberto Vivaldelli). E anche, per venire all’atroce anniversario di quel giorno, l’ambiguissima reazione di Netanyahu al Piano Trump per la pace a Gaza: sorrisi e consensi a Trump in inglese e davanti alle telecamere americane, promesse di non ritirarsi mai da Gaza in ebraico e di fronte ai media di Israele.
L’anniversario e il Piano Trump
L’anniversario del 7 ottobre coincide, forse non per caso, con la presentazione del Piano Trump. Piaccia o no il presidente Usa, e fatti salvi i molti aspetti discutibili del piano, la sua iniziativa resta l’unica mirata a interrompere le stragi a Gaza, obiettivo che in questo momento deve essere prioritario. E anche l’unica che può interrompere la trentennale coincidenza di fatto, e non solo, tra gli obiettivi di Hamas e quelli di Netanyahu e dell’ultradestra israeliana, tra il fondamentalismo islamico del movimento palestinese e il suprematismo bianco dei seguaci di Smotrich e Ben Gvir. Non ultimo, quella di Trump è l’unica iniziativa che può riportare a casa viva una parte degli ostaggi sopravvissuti alle brutalità di questi due anni, risultato che certo non era contemplato nelle azioni di Netanyahu. Il tutto di fronte all’ignavia di un’Europa che alla fin fine, salvando forse solo la Spagna di Pedro Sanchez e qualche tardivo ripensamento francese e inglese, si è riconosciuta nelle indegne parole del cancelliere tedesco Friedrich Merz: “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi”.
Il 7 ottobre 2023, con tutto ciò che ne è seguito, a partire dal progetto genocida del Governo Netanyahu, è una data destinata a segnare il secolo, come l’11 settembre 2001. Ci ha detto che l’Occidente, a parole così legato all’idea dell’autodeterminazione dei popoli e ostile ai progetti di genocidio quando in tali situazioni trova una convenienza politica (si veda il caso del Kosovo, per fare un solo esempio), è diventato totalmente indifferente se gli stessi fenomeni riguardano il popolo palestinese: che in pace subisce l’occupazione violenta di Israele attraverso gli insediamenti illegali, e in guerra subisce la potenza militare combinata di Israele, degli Usa e degli Stati europei che in questi due anni non hanno smesso di rifornire, in un modo o nell’altro, le forze armate dello Stato ebraico. Non c’è stato attentato, intifada, sollevazione o guerra che non abbia peggiorato la situazione dei palestinesi. Vogliamo davvero credere che Hamas non se ne sia mai accorto? Meno sanguinosamente ma non meno drammaticamente, non c’è stato periodo di pace di cui Israele non abbia approfittato per impadronirsi di altre terre palestinesi. Ma noi tutti abbiamo fatto finta di non accorgercene.
Così, l’incontro-scontro finale tra Hamas e i suprematisti bianchi israeliani, che ha nel 7 ottobre la sua data simbolo, ci parla dei palestinesi, dello Stato di Israele, del Medio Oriente, degli Stati Uniti. Ma parla tanto anche di noi europei: delle nostre attuali vigliaccherie e della perduta capacità, che pure avevamo, di essere un faro di moralità nel mondo.
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