Ankara consolida la sua presa sul Mediterraneo mentre l’Europa resta a guardare

ott 3, 2025 0 comments

Di Giuseppe Gagliano

La Libia è di nuovo il crocevia dove si incrociano ambizioni regionali, interessi energetici e memorie imperiali. A distanza di oltre dieci anni dalla caduta di Gheddafi, il Paese rimane diviso tra fazioni rivali, milizie e governi paralleli. Ma, in questo scenario frammentato, la Turchia ha saputo trasformare la crisi in opportunità, guidata da un uomo che unisce discrezione e determinazione: Ibrahim Kalin, ex portavoce e consigliere di Erdogan, oggi a capo del MIT, il servizio d’intelligence turco.

È lui che, lontano dai riflettori, ha orchestrato l’ultimo accordo fra il premier tripolino Abdelhamid Dabaiba e alcuni dei suoi avversari dell’Ovest libico, riportando Ankara al centro di un dossier che gli europei avevano di fatto abbandonato.

Il ritorno della Sublime Porta

Per comprendere la proiezione turca verso la Libia bisogna partire dalla memoria storica. Tripoli e Misurata furono per secoli province dell’Impero ottomano, luoghi che facevano parte del grande arco mediterraneo che univa Istanbul ad Algeri e Tunisi. Erdogan, che coltiva l’immagine di continuatore della grandezza ottomana, considera la sponda sud non solo come eredità simbolica ma come arteria vitale per commercio, energia e difesa.

La Libia rappresenta infatti un nodo per i corridoi energetici, le rotte marittime e l’accesso al Sahel. Con la crisi libica, Ankara ha visto l’occasione di colmare il vuoto lasciato dall’inerzia europea.

La strategia: meno ideologia, più vantaggi concreti

L’approccio turco è lontano dalle formule europee sulla “transizione democratica”. Kalin ha offerto ai libici un patto pragmatico: protezione militare e sostegno alla stabilità delle istituzioni in cambio di accesso privilegiato ai porti, agli appalti per la ricostruzione e ai giacimenti di gas.

È un accordo che parla il linguaggio del potere, non quello delle idealità astratte. Mentre Bruxelles moltiplica conferenze e comunicati, Ankara manda un capo dell’intelligence con un mandato politico chiaro. Una lezione di realismo che, al netto delle critiche, ha permesso alla Turchia di consolidare la propria presenza sul terreno.

Il vuoto chiama il riempimento

Il successo turco è stato possibile perché gli altri hanno lasciato spazi. Washington è distratta dalla competizione con la Cina. Mosca è logorata dal conflitto ucraino e ha rallentato l’impegno nel Mediterraneo. Il Cairo osserva con apprensione ma non dispone di risorse per imporre la sua linea in Cirenaica. Roma, pur geograficamente e storicamente legata alla Libia, appare ossessionata dal dossier migratorio e agisce più da mediatore occasionale che da protagonista. Parigi, dopo anni di ambiguità e rivalità interne all’UE, ha perso la posizione di influenza che aveva cercato di costruire all’indomani del 2011. In questo vuoto di potere, la Turchia ha potuto agire con continuità e visione, intrecciando diplomazia, economia e forza militare.

La coerenza di una strategia mediterranea

Quella di Ankara non è una mossa improvvisata. Si inserisce in un disegno mediterraneo di lungo periodo, inaugurato dagli accordi marittimi del 2019 con Tripoli che ridisegnarono le zone economiche esclusive a vantaggio della Turchia. All’epoca, l’UE protestò debolmente, ma non seppe contrastare l’avanzata turca.

Oggi quel tracciato marittimo è diventato un pilastro geopolitico che lega le coste turche alla sponda sud, garantendo a Erdogan una posizione di vantaggio nella gestione dei corridoi energetici e della sicurezza delle rotte commerciali.

Energia, ricostruzione, migrazioni: il nuovo triangolo d’influenza

La presenza turca a Tripoli e Misurata ha un significato triplice:

1. Energetico, perché assicura ad Ankara un ruolo nella distribuzione di gas e petrolio libici.

2. Economico, con contratti per infrastrutture e opere di ricostruzione che cementano la dipendenza di Tripoli da Ankara.

3. Strategico-militare, poiché consente alla Turchia di controllare snodi navali cruciali e di avere un corridoio privilegiato verso il Sahel e l’Africa subsahariana.

Questo sistema integrato rafforza il potere negoziale di Erdogan sia con l’UE sia con gli attori mediorientali.

L’Europa, spettatrice di se stessa

Il confronto con l’Europa è impietoso: Bruxelles aveva i capitali e la geografia, Ankara ha avuto visione e volontà politica.

Mentre le cancellerie europee restano bloccate fra paure interne, dibattiti legali e veti incrociati, la Turchia occupa spazi lasciati liberi. Ancora una volta l’UE dimostra che non basta avere risorse: serve la capacità di agire, di rischiare e di parlare la lingua dei partner locali.

La lezione di Kalin

Il modus operandi di Kalin – fatto di discrezione, contatti diretti e patti realistici – evidenzia il limite delle diplomazie occidentali, spesso troppo legate ai rituali multilaterali. In un Paese lacerato come la Libia, dove il potere reale è frammentato tra milizie e clan, contano più le relazioni concrete che i proclami di principio.

La Turchia ha saputo muoversi in questa realtà fluida, trasformando un conflitto periferico in un tassello centrale della propria strategia mediterranea.

Il Mediterraneo come mare della volontà

Quella che emerge è la consapevolezza che il Mediterraneo non è una zona cuscinetto ma un crocevia vitale di energia, rotte commerciali e sicurezza. Erdogan e Kalin lo trattano come tale: un mare dove prevale chi dimostra determinazione e visione di lungo periodo.

L’Europa, ancora una volta, si trova a osservare da spettatrice, lasciando ad Ankara l’iniziativa e rinunciando a esercitare un’influenza proporzionata al suo peso economico e alla sua prossimità geografica.

FONTE: https://it.insideover.com/politica/ankara-consolida-la-sua-presa-sul-mediterraneo-mentre-leuropa-resta-spettatrice.html

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