Il piano di Donald Trump e degli Usa per porre fine alla guerra a Gaza è un compromesso difficile e che nasce fragile. Un compromesso che si trova tra le Forche Caudine dei nazionalisti israeliani, la cui accettazione di un piano approvato a voce da Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca è tutta da dimostrare, e quelle di Hamas che non è ancora intenzionata a cedere il controllo della Striscia.
Un compromesso difficile
Messe da parte la “Riviera” di Gaza, i piani utopici (o distopici?) per la nuova Striscia post-bellica, l’idea stessa di trasferire i cittadini del territorio palestinese che si affaccia sul Mediterraneo il progetto americano mira a tenere dentro tutto: la sicurezza di Israele, che dovrebbe ritirarsi gradualmente; la liberazione degli ostaggi, indicata come premessa a ogni deal; uno spazio concesso all’Autorità Nazionale Palestinese come futura sovrana della Striscia di Gaza dopo il disarmo di Hamas; la tutela internazionale della transizione con un comitato di tecnocrati palestinesi e l’apertura al ruolo del mondo arabo nella ricostruzione, come da recente piano congiunto franco-saudita; la garanzia del sistema lobbystico e consulenziale che ruota attorno alla Casa Bianca e a figure come il genero Jared Kushner, come dimostrato dall’ipotesi esplicita di un ruolo futuro per Tony Blair.
Tutto assieme, tutto contemporaneamente, tutto in parallelo in un contesto che sulla carta sembra sacrificare un po’ di pragmatismo, dato che sono molto incerti i tempi e i modi delle singole fasi in cui si articola il piano a venti punti. Sembra però emergere una serie di chiavi di lettura che nell’approccio americano vanno valutate con attenzione.
Le novità del piano Trump
In primo luogo, lo stesso Trump offre a Netanyahu un compromesso al ribasso rispetto alle aspettative dei mesi scorsi. The Donald, che ha spostato l’ambasciata Usa a Gerusalemme e a lungo fornito copertura a Israele, riprende il suo piano di pace del 2020 dopo aver chiuso all’annessione israeliana della Cisgiordania e mettendo nero su bianco che Washington non è in prospettiva ostile alla soluzione a due Stati come esito conclusivo del processo di pace. Furbescamente, nel piano a venti punti la Cisgiordania non è menzionata. Ma incontrando i leader arabi all’Onu Trump sul tema è stato chiaro.
In secondo luogo, gli Usa mostrano di avere una grande attenzione al ruolo dei partner mediorientali, consapevoli del fatto che il rischio di seguire fino in fondo Israele sarebbe stato un progressivo processo di distanziamento dal mondo arabo e dagli alleati regionali. Con l’Arabia Saudita che ha innalzato nuovamente il vessillo palestinese, il Qatar ferito dai raid israeliani contro Hamas (significativa la scusa ufficiale di Netanyahu al regime degli Al-Thani) e la Turchia pronta ad alzare il livello della deterrenza contro Tel Aviv un messaggio andava mandato. Dietro, se no, incombeva la prospettiva di aprire una frattura in cui attori esterni, come la Cina, potevano inserirsi. La Turchia è un alleato Nato, i Paesi del Golfo servono come intermediari economico-finanziari e partner per la grande sfida dell’intelligenza artificiale, a cui contribuiranno con centinaia di miliardi di dollari di investimenti. Impossibile per gli Usa perderli.
Infine, il progetto chiama in causa l’Anp e la sua possibile riforma. Fatto non scontato. Certo, nota il Guardian, “il progetto è accompagnato da un piano di sviluppo economico, supervisionato da un’autorità di transizione e, in ultima analisi, da un’Autorità Nazionale Palestinese riformata. Il testo contiene un linguaggio vago riguardo al percorso verso la creazione di uno Stato palestinese, ma nulla di definitivo; il testo include anche un riferimento a un processo di “deradicalizzazione”, con pochi dettagli su cosa ciò significherebbe in pratica”. Però l’Anp non è esclusa dall’equazione. E questo conferma la volontà di Washington di non scontentare gli arabi.
FONTE E ARTICOLO COMPLETO: https://it.insideover.com/politica/piano-per-gaza-lequilibrismo-di-trump-alla-prova-di-hamas-e-dei-nazionalisti-israeliani.html

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