Commercio internazionale e sviluppo: due misure efficaci contro ogni guerra

dic 20, 2015 0 comments
Di Lorenzo Piersantelli
Questo 2015 sta finendo e, come accade ogni anno in questo periodo, si inizia a tracciare un bilancio dell’anno quasi concluso e qualche aspettativa per quello in arrivo. Sicuramente dal punto di vista internazionale di quest’anno saranno ricordata due gravi questioni che si confermano essere sempre più basilari per la stabilità diplomatica globale: in primis, il dramma dei migranti e dei quasi sessanta milioni di rifugiati in fuga da guerre e persecuzioni di ogni genere. Come aveva documentato lo scorso 18 Giugno un rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, o Unhcr [visionabile al linkhttp://www.unhcr.org/2014trends/], i livelli di migrazioni forzate hanno raggiunto il massimo livello nella storiadell’umanità: dei “59,5 milioni di profughi alla fine del 2014, rispetto ai 37,5 milioni di dieci anni fa. Più della metà sono bambini.” Numeri impressionanti e resi ancor più preoccupanti da una recente stima dell’Unhcr,secondo cui il 2015 si concluderà con più di sessanta milioni di profughi in tutto il mondo.
La seconda problematica ricordata, anche perché di sicuro non prossima alla risoluzione, sarà quella inerente ai tanti, troppi conflitti che insanguinano una grande fetta dell’intero pianeta e che è strettamente correlata allo spaventoso incremento di migranti, provocato soprattutto dagli almeno quindici conflitti scoppiati o “riattivati” negli ultimi quindici anni: “otto in Africa (Costa d’Avorio, Repubblica Centrafricana, Libia, Mali, nordest della Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan e quest’anno Burundi); tre in Medio Oriente (Siria, Iraq e Yemen); uno in Europa (Ucraina) e tre in Asia (Kirghizistan, e diverse aree della Birmania e del Pakistan). Solo poche di queste crisi possono dirsi risolte e la maggior parte di esse continua a generare nuovi esodi forzati.”
Inutile negare che gran parte di queste guerre in Medio Oriente ed in alcune regioni asiatiche, così come gran parte delle instabilità politico-diplomatiche che caratterizzano importanti aree dell’Africa, sono dettate dalla cresita a dismisura e con un’impressionante rapidità dell’intensità e dell’estensione del terrorismo islamico. del terrorismo di matrice islamica. Citando un articolo recente del giornalista britannico Will Hutton, ex direttore del settimanale e giornalista dellObserverdell’8 Novembre 2015 [consultabile al linkhttp://www.theguardian.com/commentisfree/2015/nov/08/egypt-plane-crash-tourists-can-stay-clear-unlike-those-living-with-terror e tradotto in italiano a pag. 36 del n. 1128/1nno 23 del 13/19 Novembre 2015 del settimanalInternazionale], notiamo come un vastissimo territorio che va dal Maghreb al Medio Oriente, inglobando anche Iran ed Afghanistan, stia diventando sempre più un’area off limits: la “progressiva erosione della fiducia”, con la questione della sicurezza negli aeroporti che diventa un tema sempre più attuale. Un quesito evidenziato da Hutton sembra descrivere alla perfezione un dubbio che si insinua sempre più in tutti noi: “Nei paesi dove lo stato di diritto è poco solido, la trasparenza è minima e la democrazia è inesistente, come si fa a fidarsi dei controlli?” Va inoltre evidenziato che da questi paesi non sono in fuga soltanto i turisti, ma anche gli abitanti del tutto estranei al fondamentalismo islamico che caoticamente cercano asilo politico in Europa, mettendo così l’UE “davanti alla più grande emergenza umanitaria dai tempi della Seconda guerra mondiale.” Come reagire, dunque, in modo efficace, a questa minaccia? Nel suo articolo che considero una delle più puntuali ed obiettive analisi sulla situazione attuale, Hutton propone una soluzione basata su quanto egregiamente e realisticamente documentato da due saggisti di fama mondiale:
La nostra reazione deve partire da due presupposti, sostiene Karen Armstrong nel suo libro ‘Fields of Blood‘.Prima di tutto dobbiamo riconoscere che nell’Islam non c’è nessun elemento intrinseco che spinga i credenti verso la violenza. Armstrong sottolinea che molti terroristi non hanno avuto una vera istruzione religiosa: vengono dai margini della società e non hanno mai compreso davvero la fede nel nome in cui agiscono. In secondo luogo dobbiamo comprendere che il terrorismo è alimentato dalla povertà e dall’ingiustizia. L’economista Paul Collier ha identificato cinquanta paesi dove un miliardo di persone vive con un reddito stagnante o in calo, e non stupisce che molti siano terreno fertile per il reclutamento di terroristi. In ‘The bottom billion‘, Collier propone un grande piano per generare sviluppo economico, creando stati solidi basati sullo stato di diritto che abbiano un accesso preferenziale ai mercati occidentali, concentrando gli aiuto allo sviluppo verso i paesi più poveri e usando la forza, se necessario, per imporre la pace. ‘Il terrorismo-scriveva Collier prima che gli eventi in Libia e in Siria gli dessero ragione- nasce dal circolo vizioso in cui la violenza produce altra violenza. Per spezzarlo l’Occidente deve costruire stati, ristabilire la pacee stimolare quell’interdipendenza tra settore pubblico e privato che ha caratterizzato tutti i miracoli economici del passato, dall’Europa del Dopoguerra all’Asia di oggi. Eppure un’idea così realistica sembra impraticabile. La Commissione europea prevede che nel 2017 arriveranno tre milioni di migrantie il terrorismo islamico continua ad avanzare. L’Europa deve cominciare a pensare a un monumentale piano di aiuti, commercio e consolidamento delle istituzioni in Medio Oriente e convincere Israele a cambiare atteggiamento. Parlare di pace non è più sufficiente. Tutto questo potrebbe non bastare, ma il disimpegno è una garanzia di sconfitta.”
Lo sviluppo, dunque: l’incipit per la propedeutica stabilizzazione istituzionale e di uno stato di diritto, provvedendo così a contrastare efficacemente la minaccia terroristica e, di conseguenza, il generarsi e/o il consolidarsi di conflitti armati. Una tesi che sembra essere confermata anche da uno studio curato da due ricercatori della Stanford UniversityMatthew O. Jackson e Stephen Nei e recentemente pubblicato sul portale dei “Proceedings of the National Academy of Sciences of USA”, o PNAS [visionabile al linkhttp://www.pnas.org/content/112/50/15277].
Jackson e Nei hanno analizzato la frequenza delle guerre scoppiate tra il 1820 e il 2000, scoprendo un significativo dato: nel periodo compreso tra il 1950 ed il 2000, nonostante il più alto numero di stati riconosciuti dall’ONU, il numero di conflitti tra coppie di paesi coinvolti è stato parti ad un decimo di quello tra il 1820 ed il 1949. E’ importante precisare che questa analisi di dati numerici è stata resa possibile grazie ad un modello matematico adottato dai due ricercatori: anziché prendere il esame le coalizioni tra paesi, sono state considerate le varie reti di alleanze militari. Una metodologia che ha portato ad integrare nel modello matematico adottato anche i dati inerenti l’import e l’export per ogni coppia di stati, i benefici in termini militari di queste “reti” e, naturalmente, i danni ed i benefici causati dalle guerre. La scoperta dei due ricercatori è stata sorprendente: la stabilità e la politica di pace adottata dai network di alleanze militari è strettamente connessa agli scambi commerciali tra i paesi coinvolti, non tanto in termini di volumi assoluti di scambi ma di partecipazione internazionale. L’elevato livello di commercio tra un determinato paese ed i suoi alleati implica, inoltre, un ridotto coinvolgimento nei conflitti, sia con i propri alleati che con altri paesi. A tal proposito, un esempio calzante di tutto ciò è dimostrato da quanto accadeva durante la Guerra fredda: la partecipazioni a reti commerciali rappresentava un importante vantaggio in termini di stabilità tra le due “galassie” di paesi avversari, la NATO e il paesi filo-sovietici.
Il concetto base che Hutton rimarcava nel suo articolo precedentemente citato è non solo pienamente confermato dal pregevole lavoro di Jackson e Nei, ma anche troppo spesso vanificato da un’amara constatazione della realtà: “La cosa peggiore è che questa scelta apparentemente semplice sta diventando sempre più difficile.” A rendere difficile tutto ciò è il filo conduttore che unisce le politiche internazionali in Medio Oriente e nelle aree nevralgiche delle guerre in essere, costantemente influenzate dagli interessi di sovrastrutture e da eterne mire, identificabili tranquillamente come geopolitica. Una geopolitica miope, o meglio interessata che si discosta quasi totalmente da una visione globale di stabilità e crescita per lasciare spazio ad una pianificazione di benefici riservati “a pochi”. D’altronde, cos’altro crea davvero quella marginalità socio-economica e, prima ancora, culturale, che offre il terreno più fertile per il proliferare di certi interessi insanguinati?

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