Hara: il centro vitale dell'essere umano, dallo Zen alla concezione di Karlfried Graf Dürckheim

giu 7, 2015 0 comments



Di Francesco Lamendola
«L’uomo ha una doppia origine: egli è infatti di origine terrestre e terrena, naturale e soprannaturale.

L’Occidente non ha compreso questa doppia origine perché ha dato per scontato che quella "celeste" sia esclusivamente materia di fede e che soltanto la realtà "terrena" possa essere oggetto di conoscenza scientifica e di analisi tecnica. L’Occidente ha scoraggiato l’uomo nella sua evoluzione spirituale. Tuttavia la provenienza celeste dell’uomo è la sua vera essenza. Nella profondità del suo essere l’uomo partecipa del Divino e può rendersene conto attraverso particolari esperienze.

L’uomo è cittadino di due mondi: quello condizionato dallo spazio-tempo e accessibile alla ragione e all’approccio tecnico, e quello che costituisce la realtà autentica del suo essere e che è al di là dello spazio e del tempo; quest’ultimo è accessibile soltanto alla nostra coscienza interiore, intima, e non alla ragione legata all’osservazione oggettiva.
La destinazione dell’uomo consiste nel diventare una persona che nella propria esistenza legata allo spazio-tempo può rendere testimonianza al suo essere sganciato da spazio e tempo. Per giungere a tanto, dobbiamo prima di tutto imparare a prendere sul serio le esperienze nelle quali n particolari momenti la divina essenza ci tocca e ci chiama.
Questo è il significato profondo di ogni esercizio spirituale, così come io lo intendo: aprirsi all’unione col Divino attraverso esperienze che lo testimoniano e mettere sempre più in atto un modo di essere che ci consenta di avvertire e sperimentare il Divino nella vita quotidiana.
La doppia origine dell’uomo è quindi accessibile all’esperienza. Essa è la fonte, la promessa e il compito della vita umana, e può essere vissuta sulla via iniziatica, il cui punto di partenza è l’esperienza dell’essere e il cui strumento è l’esercizio spirituale, l’"exerzitium".
La vita, vissuta come cammino iniziatico, è la vita dell’uomo che si è destato alla sua autentica essenza. Mi sembra che sia giunta l’ora in cui l’Occidente debba destarsi a questa esperienza., che non deve restare privilegio dell’Oriente.»
Queste parole citate da Paola Giovetti, sono state scritte da Karlfried Graf Dürckheim, che alcuni considerano una delle personalità più significative del XX secolo: un Maestro di prima grandezza, un autentico spirito illuminato, capace di tracciare la strada all’umanità smarrita di questo nostro tempo.
Eppure, se andiamo a prendere una enciclopedia generale o un dizionario di filosofia, alla voce "Dürckheim" non troveremo, quasi certamente, nulla; la "voce" più simile sarà quella relativa al francese Émile Dürkheim (1858-1917), uno dei padri nobili del pensiero sociologico e antropologico europeo, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento; autore, fra l’altro, di studi sulle tribù "totemiche" dell’interno dell’Australia.
La cultura "ufficiale" pare non essersi ancora resa conto che la figura di Karlfried Graf Dürckheim svetta gigantesca nel panorama della spiritualità contemporanee; e che, un giorno, essa verrà ricordata come quella di uno dei pochi, veri spiriti grandi dell’Europa novecentesca.
Purtroppo è sempre così: la cultura accademica ha sempre lo sguardo rivolto all’indietro, è sempre vittima di una forma di idolatria della storia (contro la quale già Nietzsche metteva in guardia, in piena stagione storicistica); e, viceversa, afflitta da una cronica miopia per quanto riguarda il presente.
Così come gli strateghi si preparano sempre alla "prossima" guerra con gli strumenti, materiali e concettuali, di quella "precedente", allo steso modo gli studiosi della scienza e dell’arte pensano il mondo con le lenti della generazione passata.
È una forma di presbiopia dalla quale difficilmente ci si può sottrarre, se non si esercita una continua critica dei propri schemi mentali consolidati.

Karlfried Graf Dürckheim nasce a Monaco di Baviera, nel 1896, da una famiglia di antica nobiltà. Trascorre l’infanzia in campagna; studia musica e frequenta il liceo classico; poi, non appena diplomato, parte volontario per la prima guerra mondiale, come tanti altri giovani nei giorni convulsi dell’estate 1914. Nominato tenente, presta servizio al fronte per tutta la durata del conflitto; si comporta da valoroso, ma riesce a non trovarsi mai nella condizione di dover uccidere un essere umano. Nel 1918 viene smobilitato e rientra nella vita civile.
L’orientamento della sua esistenza comincia a prendere una direzione spirituale ben precisa. Rinunciando all’eredità paterna, si immerge negli studi di filosofia e psicologia e si laurea nel 1930, a Lipsia, dedicandosi poi, per alcuni anni, all’insegnamento della psicologia presso l’Università di Kiel.
Intanto, avviene l’incontro decisivo della sua vita con lo Zen: durante una conversazione tra amici, resta folgorato dalla lettura di un brano del "Tao Te Ching". Da quel momento, lo Zen diviene il centro della sua vita spirituale; ad esso egli affianca la lettura e la meditazione dei mistici cristiani e, in particolare, di Meister Eckhart, il celebre frate domenicano che diventerà, per lui, il Maestro per antonomasia.
L’avvento di Hitler al potere, nel 1933, lo spinge a cercare spazio fuori della sua patria, anche perché la famiglia materna è di origini ebraiche.
Dopo un periodo trascorso a Londra ed uno in Sud Africa, nel 1938 accetta dal ministro degli Esteri, Joachim von Ribbentrop, un incarico di tipo culturale da svolgere in Giappone: dovrà tenere conferenze, occuparsi di alcune biblioteche e curare i rapporti fra gli studiosi e gli insegnanti tedeschi residenti in Estremo Oriente. Salvo un breve rientro in Europa, nel 1939, per assistere la moglie Enja von Hattingberg morente di cancro, Dürckheim rimane in Giappone per oltre un decennio, che sarà fondamentale per la sua vita e per l’evoluzione del suo pensiero.
Il lungo soggiorno nel Paese del Sol Levante gli offre la possibilità di approfondire i suoi studi sullo Zen, anche mediante la frequentazione di insigni maestri giapponesi, tra i quali Hayashi, abate di un importante monastero presso Kyoto.
In quegli anni Dürckheim focalizza pienamente il concetto di "hara", che una traduzione letterale ridurrebbe alla parola "ventre", mentre si tratta di qualcosa di molto più complesso: il centro vitale dell’uomo, il segno del suo raggiunto equilibrio psicofisico, della sua perfetta padronanza del proprio corpo così come del proprio spirito, della propria volontà e dei propri pensieri. 

Risultati immagini per hara zen

"Essere in hara", pertanto, significa aver realizzato la propria evoluzione, aver conquisto la pienezza della condizione umana, sia nella sua dimensione terrestre che in quella celeste. Vuol dire liberarsi dal piccolo Io, dominato dalle passioni e dall’ignoranza, e accedere alla dimensione superiore, nella quale si realizza l’incontro fra l’umano e il Divino; scoprire – come dice anche Meister Eckhart – la rivelazione ineffabile di Dio in noi.
Dopo le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki, gli Americani sbarcano in Giappone e occupano militarmente il Paese sconfitto, procedendo a una sommaria epurazione degli elementi politicamente sospetti. Dürckheim, come cittadino tedesco e come funzionario del Ministero degli Esteri germanico, viene arrestato senza tanti complimenti e recluso in cella per circa un anno e mezzo. Lo accusano di essere un nazista; in Europa, intanto, si celebra la vendetta dei vincitori col processo di Norimberga, in cui anche Ribbentrop, fra gli altri, viene condannato a morte e giustiziato.
Dürckheim utilizza il periodo della detenzione per dedicarsi intensamente allo studio e per praticare lo "Za-Zen", la tecnica di meditazione in posizione seduta, trovando serenità e conforto e destando l’ammirazione di quanti gli stanno intorno.
Finalmente, nella primavera del 1947, egli può tornare a casa, in una Germania ancora sconvolta dalle distruzioni della guerra e dai feroci bombardamenti aerei degli Alleati.
In mezzo a quelle macerie morali e materiali, e dopo aver appreso la morte di tante persone care, Dürckheim incontra una vecchia allieva, Maria Hippius, che diviene la nuova compagna della sua vita e che lo rimarrà sino alla fine. Insieme acquistano una casa a Hinter-Todtmoos, nella Foresta Nera; e poi, poco alla volta, alcune altre strutture, che consentono loro di mettere in piedi un istituto di terapia iniziatica, il cui scopo è aiutare le persone afflitte da disturbi e malattie a ritrovare la guarigione e l’equilibrio materiale e spirituale.
La terapia è ispirata sia alla psicologia junghiana (e, in particolare, al processo di "individuazione" teorizzato da Carl Gustav Junhg), sia alle tecniche di meditazione Zen, sia, infine, a una serie di esercizi psico-fisici; e il suo fine dichiarato è quello di risvegliare la natura divina presente all’interno di ogni essere umano, il Cristo o il Buddha che giace al fondo della sua anima.
Ciascuno di noi, sostiene Dürckheim, deve convincersi che è alla sua portata fare appello a una serie di potenti energie interiori, che si manifestano in fenomeni quali la telepatia, la chiaroveggenza e simili, che possediamo ma non siamo abituati ad utilizzare.
Procedendo per gradi, dobbiamo servirci di un maestro per risvegliare il Maestro interiore che è dentro di noi.
Per secoli la cultura occidentale, e gran parte del pensiero cristiano, hanno convogliato tutta l’attenzione degli individui sull’idea di un Dio trascendente, al quale possiamo rivolgerci solo mediante un atto di sottomissione; è giunto il tempo, invece – sulla scorta dello Zen e di altre filosofie orientali, ma anche di mistici occidentali quali Meister Eckhart – di riscoprire la presenza interiore del Divino, ossia la divinità che è il nucleo essenziale della nostra natura.
Queste idee, che possono sembrare ardite dal punto di vista di una religiosità tradizionale, non scandalizzano importanti personalità del cristianesimo, ad esempio il gesuita padre Hugo Lassalle, egli pure grande ammiratore dello Zen e convinto, anzi, che lo Zen sia una delle vie privilegiate per accedere all’esperienza dell’unione mistica col Cristo.
Anche altri pensatori e mistici cristiani, del resto – purché dotati di un’esperienza diretta della spiritualità asiatica – sono giunti, negli ultimi anni, alle stesse conclusioni: tra essi Raimon Panikkar e padre Anthony Elenjimittam, dei quali ci siamo a suo tempo occupati in apposita sede.
Sono giunti, cioè, alla conclusione che non esiste una differenza sostanziale fra le grandi esperienze religiose dell’Oriente e dell’Occidente, almeno quando ci si pone su un livello mistico.
L’incontro con il Divino può prendere diverse denominazioni e raffigurazioni, a seconda dei differenti ambiti culturali: ma, fondamentalmente, si tratta sempre di una sola ed unica esperienza. 



Commenti

Related Posts

{{posts[0].title}}

{{posts[0].date}} {{posts[0].commentsNum}} {{messages_comments}}

{{posts[1].title}}

{{posts[1].date}} {{posts[1].commentsNum}} {{messages_comments}}

{{posts[2].title}}

{{posts[2].date}} {{posts[2].commentsNum}} {{messages_comments}}

{{posts[3].title}}

{{posts[3].date}} {{posts[3].commentsNum}} {{messages_comments}}

Search

tags

Modulo di contatto