Di Vittorio Zucconi
WASHINGTON - Il grande fiume del “sogno americano”, quella corrente
forte e tumultuosa che ha trasportato generazioni di persone verso la
speranza di una vita migliore, sta diventando una palude di acqua
stagnante. La società americana ha perduto la propria formidabile
mobilità e comincia a somigliare sempre di più alle stanche società del
Vecchio Mondo, dove è ormai molto più facile scivolare verso il basso
che arrampicarsi verso l’alto.
Soltanto il 4 per cento degli
americani dell’ultima generazione post anni ‘70 oggi divenuta adulta è
riuscita a salire di qualche gradino sulla scala del reddito, a
migliorare la propria situazione in termini assoluti, di guadagni e di
sicurezza, e in termini relativi, rispetto alle altre classi di censo.
L’Istituto di ricerche sociali Pew, che è il più serio ed equilibrato in
materie di demografia e di sociologia, ha concluso con evidente
amarezza che il «sogno americano è vivo e gode ottima salute, ma
soltanto a Hollywood».
Nella realtà quotidiana, è già un successo se
famiglie e individui riescono a galleggiare sul reddito medio nazionale,
che è oggi di 49 mila e 900 dollari annui lordi, quaranta mila euro.
Una cifra che potrebbe apparire invidiabile a un salariato italiano, ma
diventa assai più smunta se depurata, oltre che dalle tasse, dai costi
della assicurazione sanitaria privata, delle imposte locali e
immobiliari calcolate sul valore di mercato delle casa, dei trasporti
privati, indispensabili nella transumanza quotidiana dei pendolari senza
mezzi pubblici.
Nonostante quella “ricerca della felicità” che la
Costituzione garantisce a ogni cittadino, come “ricerca”, ma non come
risultato, la rincorsa è sempre più simile al sofisma di Achille e della
tartaruga, dove il cittadino Achille deve correre sempre più un fretta
senza mai riuscire a raggiungere la tartaruga. Il reddito delle persone e
delle famiglie è infatti generalmente aumentato, anche attraversando il
ciclone delle due recessioni in questa prima decade del 2000, quella
del 2001, dopo l’11 settembre, e quella del 2008, dopo un altro
settembre nero, il collasso delle torri di carta finanziarie. Ma la
distribuzione della ricchezza si è squilibrata molto più che in passato,
trasformando il profilo della società americana da quello «a mela» con
il grosso della classe media attorno alla circonferenza, a quello «a
pera», dove la polpa si colloca ormai verso la base. Il tormento del
cittadino Achille e della inafferrabile tartaruga della promozione
sociale si manifesta in un dato chiarissimo: l’85 per cento delle
persone, maschi come femmine (che comunque continuano a guadagnare meno
dei propri colleghi, a parità di lavoro) hanno, nominalmente, più dei
propri genitori, posseggono più beni, mobili o immobili, case, seconde
case, oggetti di consumo, eppure sono scesi, o sono a rischio di
retrocessione, sulla scala sociale. E’ un arretramento relativo, dunque,
che produce quel sentimento di frustrazione e di rancore che ha mosso
le proteste di “Occupy”. Non tanto, e non solo, per la rabbia verso
quell’uno per cento che controlla troppa parte della torta, ma per il
sentimento di avere perduto la possibilità di ritagliarsene in futuro
fette più sostanziose.
Il “sogno americano”, appunto.
La certezza,
pur molto mitologica, dell’ideologia neopuritana alla Horatio Alger, lo
scrittore popolarissimo che all’alba del ‘900 convinse generazioni di
bambini e ragazzi che con il proprio duro lavoro, la disciplina, la
tenacia, l’orizzonte delle loro possibilità era infinito, come i grandi
cieli del West. A tutti era aperta la strada del “
rags to riches”,
del
salto dagli stracci alla ricchezza. Hollywood, negli stessi anni e
ancora oggi, aveva accompagnato e fortificato il mito, con avventure a
lieto fine di orfanelle, straccioni, emarginati, morti di fame capaci di
balzare ai vertici della società, come esemplificò il classico “Trading
Places”, Una Poltrona per Due, con Eddie Murphy e Dan Aykroid.
E
invece sono proprio gli afroamericani, come il protagonista di quella
fiaba a colori, il segmento della popolazione dove è più facile
scivolare all’indietro che progredire e uscire dalla condizioni nelle
quali si è nati, soprattutto perché scarseggia il carburante primo della
mobilità positiva: i titoli di studio. Anche se non sono più una
condizione sufficiente a garantire una vita di relativo benessere, le
lauree rimangono necessarie per poter sperare di sottrarsi al ciclo dei
lavori a salari minimo, friggendo hamburger e servendo clienti negli
ipercentri commerciali.
Nel corso della vita adulta, un laureato
guadagnerà il doppio di un non laureato. Mentre la desindacalizzazione
generalizzata, soprattutto nel mondo della grande, o ex grande,
industria, ha tolto quella cinghia di trasmissione salariale che aveva
fatto, ad esempio dei metalmeccanici di Detroit, la grande “classe
media” americana senza bisogno di lauree o dottorati. Il sogno vive
ancora, e si mantiene, nei casi sensazionali, ma individuali degli Steve
Jobs che dal garage di famiglia passano a creare industrie colossali,
dei Bill Gates, fuoricorso universitario senza pezzo di carta ma con
montagne di dollari generati dalla sua azienda, o, in politica, dei Rick
Santorum, nipote di minatori italiani, o dei Barack Obama, figli di
nessuno, senza altra raccomandazione che la propria intelligenza,
balzati da oscuri licei fino alla Presidenza degli Stati Uniti o a
poltrone senatoriali. Ma è sui grandi numeri, quelli che contano, che il
“sogno” si rivela essere sempre più leggenda: è oggi più facile che dai
vertici della scala sociale si ricada all’indietro — lo fa il 6% dei
figli di ricchi o privilegiati — che dal fondo si passi al piolo
più alto, appunto il 4%. E il numero dei poveri, nella definizione
tecnica, è salito alla cifra record di 42 milioni.
Non sarebbero,
queste setacciate dall’Istituto Pew che ha studiato gli andamenti e gli
spostamenti della placca sociale americana, cifre specialmente tragiche,
se lette in relazione ad altre società e ad altre nazioni. Ma per
l’America, per l’immagine di sé, che regge questa “nazione di nazioni”
da oltre due secoli, la mobilità è un ingrediente fondamentale. Il
“patto sociale”, la costituzione non scritta che regge la democrazia
americana è la promessa delle occasioni, non quella dei risultati.
Ammettere
che si deve correre sempre più forte per restare fermi o per non
slittare indietro è una ammissione di fallimento per la cultura
dell’operoso calvinismo che promette, come faceva Horatio Alger nei suoi
cento libri best seller, la ricompensa terrena al sacrificio e alla
fatica.
E se in futuro gli storici dovranno esaminare come, quando e
perché anche questa «città luminosa sulla collina», come diceva Reagan
citando i libri sacri, comincia ad affievolirsi, non saranno
l’indebitamento, la globalizzazione, la finanza a spiegare il declino
dell’impero
americano, ma la fine del “sogno”. Una fine che si
manifestò con lancinante chiarezza, nel collasso dei valori immobiliari
dopo il 2002. La casa, o almeno quelle scatole di legno e cartongesso
riprodotte all’infinito nel «grande ovunque americano» dei sobborghi che
qui vengono generosamente chiamate case, sono, da sempre, la
materializzazione tangibile, vivibile del sogno realizzato, oltre che il
primo, e spesso unico investimento delle famiglie, che contano sulla
rivalutazione e sulla vendita per finanziarsi la propria vecchia oltre
le magre pensioni federali. Erano, quelle abitazioni, il fiume che
alimentava il sogno, la sola e vera “scala mobile” dell’americano media.
Quando la scala, spinta al parossissimo dall’ingordigia dei prestatori e
dall’incoscienza dei debitori abbagliati dalle facili occasioni, si è
bloccata, sui gradini è ruzzolata la speranza. C’è soltanto un gruppo di
americani che vede costantemente aumentare il proprio reddito e la
propria posizione relativa e sono gli ispano americani, i “latinos”,
destinati a diventare il gruppo etnico più numeroso, anche dei bianchi,
tra una generazione.
Addio “American Dream”, benvenuto al “Sueño Americano”.
Fonte:Repubblica
Da Diritti Globali
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