Come capire il guaio tra Iran e Arabia Saudita

gen 11, 2016 0 comments
Di Davide Maria De Luca
Iran e Arabia Saudita sono due paesi molto simili, almeno in apparenza. Tanto in Iran quanto in Arabia Saudita il clero musulmano gode di un potere senza paragoni in quasi nessun altro paese del mondo. Le leggi sono basate sul Corano e norme specifiche limitano moltissimo i diritti delle donne, tra le altre cose. Iran e Arabia Saudita sono anche due paesi che fanno ampio ricorso alle condanne a morte: ne sono state eseguite 157 in Arabia Saudita nel corso del 2015, più di mille in Iran. Ma proprio l’esecuzione di una condanna a morte ha messo in mostra le differenze e le profonde divisioni che separano il governo iraniano da quello saudita.
Nimr al Nimr, un cittadino saudita e religioso sciita, è stato ucciso in Arabia Saudita lo scorso 2 gennaio, dopo quattro anni di detenzione. L’Iran ha protestato duramente contro la condanna e poi l’esecuzione e ha promesso una rapida rappresaglia. Per quanto simili, Arabia Saudita e Iran sono divise dalla religione che praticano: l’Islam sciita in Iran e l’Islam sunnita in Arabia Saudita (il sunnismo è nettamente maggioritario nel mondo musulmano). Questa divisione, oggi più che mai, sta contribuendo a dare una nuova forma al Medio Oriente con conseguenze che sono molto difficili da prevedere.
Perché l’uccisione di Nimr al Nimr è così importante?
Secondo Pilipp Smyth, un ricercatore specializzato in Iran del Washington Institute, si tratta di una domanda più che legittima: perché l’Iran dovrebbe promettere rappresaglie per l’uccisione di un cittadino di un altro paese? La risposta ha a che fare con la religione, ma non solo. Da anni l’Iran cerca di presentarsi in tutto il Medio Oriente come il protettore degli sciiti, che per varie ragioni storiche hanno finito quasi ovunque per essere una minoranza all’interno di stati sunniti. Prendere posizione sulla morte di Nimr al Nimr – le cui posizioni ideologiche non erano poi così vicine a quelle dell’Iran come sembra in questi giorni – è stato probabilmente un modo per riaffermare questo ruolo.
Lo stesso ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha scritto domenica sul New York Times che la “scandalosa” uccisione di al Nimr “è stata immediatamente preceduta da un sermone di odio nei confronti degli sciiti di un predicatore della Gran Moschea della Mecca”, e che l’Arabia Saudita deve decidere se “continuare a sostenere l’estremismo e promuovere l’odio di setta o se giocare un ruolo costruttivo per promuovere la stabilità della regione”.

Di contro in questi giorni il ministro degli Esteri saudita, Adel al Jubeir, ha riassunto così la questione parlando con Reuters: «L’Iran deve decidersi se essere uno stato moderno oppure una rivoluzione». Significa, in altre parole, che l’Iran deve scegliere se essere un paese che rispetta l’autonomia dei suoi vicini, oppure se vuole continuare a portare avanti il suo obiettivo di “liberazione” dei popoli sciiti in tutto il Medio Oriente: il termine “rivoluzione” scelto da al Jubeir è denso di significati (ci arriviamo).
Quando è cominciata questa storia?
Fino agli anni Settanta del secolo scorso, pochi abitanti del Medio Oriente avrebbero saputo elencare con precisione le differenze teologiche e dottrinali tra sciiti e sunniti; un numero ancora più ridotto avrebbe saputo dire se i proprio vicini di casa o colleghi di lavoro appartenevano all’una o all’altra branca dell’Islam. All’epoca l’Iran, almeno nelle grandi città, era un paese aperto e filo-occidentale: non era ancora una teocrazia islamica ma era governato dallo scià Mohammad Reza Pahlavi, alleato degli Stati Uniti. Anche l’Arabia Saudita era un paese diverso rispetto a oggi: il boom del petrolio aveva spinto la monarchia saudita a compiere una rapida modernizzazione del paese e dei suoi costumi. Tanto in Iran quanto in Arabia Saudita, però, questi cambiamenti suscitarono resistenze tra gli elementi più conservatori della società. Leader religiosi cominciarono a ottenere un seguito enorme attaccando i nuovi costumi e i regimi autoritari che li avevano introdotti.
Le tensioni esplosero nello stesso momento in entrambi i lati del Golfo Persico. Nel febbraio del 1979 il regime autoritario dello scià iraniano fu rovesciato da una rivoluzione che aveva unito vecchi religiosi conservatori e giovani ribelli stanchi della dittatura. Nove mesi dopo in Arabia Saudita un gruppo di estremisti religiosi assaltò e occupò la Grande Moschea della Mecca per protestare contro l’eccessiva occidentalizzazione voluta dal governo saudita. Ci vollero due settimane di combattimenti e centinaia di morti perché l’esercito saudita riuscisse a occupare nuovamente la moschea.
Nel giro di pochi mesi l’Iran si trasformò da regime filo-occidentale a teocrazia islamica con l’ambizione di distruggere Israele. In Arabia Saudita, spaventati dall’attacco alla Grande Moschea, la monarchia degli al Saud riportò indietro il paese di decenni consegnando fondi, potere e autonomia al clero sunnita, nella speranza di non venire travolti dalla rivoluzione come era accaduto allo scià.
Dove si combattono?
Uno degli effetti della salita al potere dei religiosi in Iran e il rafforzamento della presa della monarchia saudita sul paese fu che improvvisamente la differenza tra sciiti o sunniti tornò a essere fondamentale. Gli sciiti iniziarono a essere descritti dai più conservatori tra i religiosi sunniti come eretici che a malapena potevano essere tollerati, mentre per gli ayatollah iraniani – i religiosi che di fatto controllano la politica dell’Iran – divennero compagni oppressi e aiutarli un dovere religioso e morale. Questa situazione finì per coinvolgere anche i regimi sunniti più laici, che cominciarono a vedere ogni sciita come una potenziale spia del regime iraniano.
Foreign Policy ha scritto che quella che è entrata in azione dopo l’uccisione di al Nimr è una macchina rodata e sperimentata dagli iraniani: la “macchina del martirio“, il procedimento per cui gli sciiti vittime di persecuzione nei paesi sunniti vengono trasformati dalla propaganda iraniana in strumenti per portare avanti gli obiettivi politici del paese.
Dallo Yemen al Bahrein, infatti, gli sciiti guardano le televisioni iraniane in lingua araba, dove possono trovare una rappresentazione del loro punto di vista che spesso gli viene negata dai regimi sunniti al potere. Quelli disposti a criticare e opporsi al proprio governo per ottenere un maggior riconoscimento dei loro diritti, nell’Iran possono trovare un alleato disposto a fornire denaro, armi e persino addestramento militare. A quasi quarant’anni dagli eventi del 1979, gli effetti di questa rivalità sono visibili in tutta la cosiddetta “mezzaluna sciita”, che dall’Iran passa al regime alawita del presidente Bashar al Assad in Siria e arriva fino al movimento Hezbollah in Libano.
In Yemen la coalizione guidata dall’Arabia Saudita sta combattendo da mesi contro gli Houthi, una milizia di sciiti yemeniti appoggiati dall’Iran che è riuscita a rovesciare il governo sunnita e filo-saudita. Nella stessa Arabia Saudita dopo l’esecuzione di Nimr al Nimr ci sono state manifestazioni e proteste nel cosiddetto “triangolo sciita”, l’area nel nord-est del paese ricca di petrolio dove sono concentrati gli sciiti sauditi. Altri sciiti hanno protestato in Bahrein, dove la minoranza sunnita governa in modo autoritario su centinaia di migliaia di sciiti (per fermare le proteste degli sciiti nel marzo del 2011 la monarchia sauditaaveva mandato in Bahrein delle sue truppe). In Kuwait ci sono stati attentati contro gli sciiti compiuti da gruppi affiliati all’ISIS, che hanno l’obiettivo di far iniziare una guerra civile tra le due sette. Parte del Libano è di fatto sotto il controllo di Hezbollah, una milizia sciita ampiamente sostenuta dai religiosi iraniani.
In altri paesi del Medio Oriente è però la minoranza sunnita a essere stata discriminata. In Iraq – paese a maggioranza sciita – il governo sciita ha adottato politiche settarie e discriminatorie contro i sunniti, soprattutto quando al governo c’era l’ex primo ministro Nuri al Maliki: questa situazione ha contribuito per esempio all’espansione dello Stato Islamico (o ISIS, organizzazione sunnita), soprattutto nell’Iraq occidentale, dove vive la maggioranza dei sunniti iracheni. Oggi lo Stato Islamico viene combattuto non soltanto dall’esercito iracheno, ma anche dalle milizie sciite finanziate o appoggiate dall’Iran. In Siria c’è una situazione simile: un governo formato da una minoranza religiosa vicina agli sciiti – gli alauiti, una setta di cui fa parte tutta la famiglia del dittatore Assad – combatte un’insurrezione sunnita. L’Iran finanzia il governo, mentre l’Arabia Saudita e i paesi sunniti finanziano moltissimi gruppi ribelli, anche estremisti.
Cosa succederà ora?
La scelta compiuta dal presidente statunitense Barack Obama di disimpegnarsi militarmente dal Medio Oriente ha lasciato un margine di azione sempre più grande ai principali paesi della regione, come Iran e Arabia Saudita. E la guerra in Siria e in Yemen e l’insurrezione in Iraq hanno dato all’Iran e all’Arabia Saudita un numero crescente di occasioni per scontrarsi. Questo non significa che non ci siano contatti tra i rappresentanti dei due paesi: i delegati iraniani e sauditi si sono per esempio incontrati nei mesi scorsi nel corso delle conferenze per discutere il futuro della Siria. Anche se le loro posizioni rimangono molto distanti, diversi esperti e diplomatici sostengono che negli ultimi mesi ci sia stato qualche timido tentativo di distensione.
Una delle ragioni è probabilmente l’atteggiamento degli Stati Uniti. Fino a poco tempo fa l’ostilità degli americani nei confronti dell’Iran e l’alleanza degli americani con i sauditi erano elementi fondanti della politica in Medio Oriente. Con l’accordo sul nucleare iraniano –raggiunto all’inizio di aprile tra Iran e paesi del cosiddetto gruppo “5+1″, cioè i cinque che hanno il potere di veto al Consiglio di sicurezza dell’ONU (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina) più la Germania – qualcosa è cambiato: i rapporti tra Arabia Saudita e Stati Uniti – che si erano parecchio incrinati già nel 2011, quando durante le cosiddette “primavere arabe” il governo americano aveva deciso di non sostenere più il regime egiziano di Hosni Mubarak, strettissimo alleato degli Stati Uniti – si sono ulteriormente raffreddati. Da diversi anni il regime dell’Arabia Saudita ha cominciato a criticare il governo americano accusandolo di sacrificare la sicurezza saudita per il raggiungimento di propri obiettivi nazionali: in altre parole, i sauditi si lamentano che gli americani non facciano abbastanza per difenderli. Queste accuse si sono aggravate dopo l’accordo sul nucleare.
Dopo l’uccisione di al Nimr, il Dipartimento di Stato americano ha criticato il regime saudita. Non si tratta di una presa di posizione forte come sarebbe stata una dichiarazione personale di Obama, ma è comunque un chiaro segnale di come l’atteggiamento degli Stati Uniti non sia più quello di una decina di anni fa. Una guerra aperta tra Iran e Arabia Saudita viene esclusa da quasi tutti gli esperti e i diplomatici, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che in Medio Oriente – dove fino a pochi anni fa si parlava soprattutto di interventismo americano e della questione israelo-palestinese – la rivalità tra Iran e Arabia Saudita e le divisioni tra sciiti e sunniti saranno sempre più determinanti.

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