Il settarismo nella geopolitica del Vicino Oriente

gen 20, 2016 0 comments
Di Fatima Ezzahra Ez zaitouni 
L’attuale assetto geopolitico mediorientale ruota attorno alla competizione tra le maggiori potenze regionali per il potere e l’esercizio della propria influenza sugli Stati confinanti. Nonostante non si sia, ad oggi, arrivati ad uno scontro diretto tra le principali potenze, tuttavia le loro rivalità continuano ad animare indirettamente molti dei conflitti civili in atto nella regione. Si può affermare che l’identificante religioso sia tornato in auge nel Medio Oriente, contestualmente all’esacerbarsi degli scontri tra sciiti e sunniti, scontri, tuttavia, da interpretarsi più come il risultato di convergenze di potere intra-regionali ed internazionali che reali conflitti religiosi.
Lo scontro tra sciiti e sunniti non va interpretato come un reale conflitto religioso, bensì come il risultato di uno scontro tra poteri regionali e internazionali.
La polarizzazione geopolitica fra Teheran e Riyadh, infatti, ha determinato, tra le altre conseguenze, una tangibile estremizzazione delle preesistenti differenze fra i due gruppi, indebolendo in tal modo le società multi-identitarie della regione e accentuando estremizzazioni identitarie dentro realtà per lo più frammentate. Questo fenomeno, tecnicamente definito settarismo, risulta ampiamente utilizzato dai due attori a scopi politici e ciò non costituisce, secondo molti analisti, un elemento di novità, dacché risulta retrodatato: come osserva Gilles Kepel, già a partire dal 1979 il declino del nazionalismo arabo e la contemporanea rivoluzione in Iran “hanno determinato un conflitto per l’egemonia interna allo spazio di senso islamico, tra un Iran sciita e rivoluzionario[…] e un’Arabia Saudita sunnita e guardiana dei luoghi santi della Mecca“. È possibile, ad ogni modo, rintracciare un revival del settarismo e una nuova strutturazione della sua retorica politica a partire dal 2003, in seguito all’invasione dell’Iraq e alla successiva guerra: come afferma Daniel Byman, in quell’occasione si è assistito al sorgere dell’attuale ondata di mobilitazione settaria, rafforzatasi ulteriormente con la guerra civile in corso in Siria, e che vede concretamente schierati da una parte gli alawiti, ideologicamente allineati a Teheran, e dall’altra i ribelli appoggiati daRiyadh.
Le cause di questa rivalità tra l’Iran e l’Arabia Saudita sono ancora oggi oggetto di dibattito tra studiosi e analisti, ma ciò su cui tutti convergono è l’eccessiva semplificazione a cui si giungerebbe motivando tale ostilità appellandosi esclusivamente allo storico contrasto tra sciiti e sunniti. Secondo Karim Sadjadpour, uno dei più autorevoli analisti dell’Iran e del Medio Oriente pressoCarnegie Endowment, tale rivalità è spiegabile attraverso quattro tipologie di contrasto: settario (sunniti-sciiti), etnico (arabi-persiani), ideologico (vicinanza-contrasto con l’Occidente) e in ultima analisi geopolitico. Una seconda linea esplicativa, invece, sostiene che la contrapposizione sia dovuta primariamente ai due modelli di governo e di concezione dell’ordine regionale radicalmente differenti, ognuno dei quali rivendica per se stesso l’esclusiva legittimità a rappresentare l’islam politico; è indubbia, comunque se ne spieghi l’origine, l’esistenza di una rivalità geopolitica che esaspera i conflitti regionali, i quali, a loro volta e in un circolo vizioso, incrementano la rivalità stessa.
La fenomenologia settaria è riconoscibile tanto nella politica estera perseguita dai due Stati e accennata poc’anzi, vale a dire il perseguimento di una serie di proxy wars per affermare ed espandere la propria egemonia, quanto sul piano delle scelte politiche interne. In particolare, nelle due realtà si può riconoscere una comune estremizzazione della rivendicazione nazionale basata sull’unità etnico-religiosa e la conseguente marginalizzazione, e repressione, delle minoranze. La retorica settaria diviene, inoltre, uno dei cardini su cui poggia la repressione del dissenso politico, strumentalmente associato da parte di entrambi i governi ad un’aspirazione cospirazionista delle minoranze ai danni dell’unità e della sicurezza nazionali, ed estensivamente indicato come un oltraggio alla sacralità del potere dei governanti, tutte argomentazioni che concretamente hanno permesso, e permettono, ai giudici di comminare pene gravi, in alcuni casi non isolati anche pene capitali, ai danni degli imputati. Qualche mese fa, Mohammadi Golpayegani, noto esponente religioso sciita, durante un seminario a Gilan ha affermato che opporsi allo Stato è il maggiore dei peccati; una visione non dissimile è quella sostenuta dall’ortodossia intransigente wahabitadell’Arabia Saudita.
I due grandi avversari, Arabia Saudita e Iran, si assomigliano nel loro voler rappresentare il vero “Islam politico” e nei contenuti settari delle rispettive politiche.
Ciascuno dei due Stati si propone, come già detto, quale unica possibile configurazione del cosiddetto islam politico, per cui la repressione del dissenso assume una forte dimensione religiosa, dacché la contrapposizione al governo viene interpretata come contrarietà all’ordine religioso e divino. Tali posizioni subiscono un ulteriore inasprimento quando gli oppositori politici sono altresì membri rispettivamente della minoranza sciita in Arabia Saudita e sunnita in Iran, vale a dire potenzialmente allineati con il rivale geopolitico. Hoda Al Dosari, scrittrice saudita, in uno dei suoi articoli recenti ricorda la storia del diciassettenne sciita, Ali Nimr, accusato da parte delle autorità saudite di heraba, disobbedienza al regnante e coinvolgimento in attività considerate minatorie dell’unità e della sicurezza nazionali. Le accuse mosse contro il giovane, osserva la scrittrice, risultano indefinite, e molti sono i dubbi circa la correttezza del processo cui è stato sottoposto, suscitati soprattutto dalla mancanza di un’adeguata rappresentanza legale del ragazzo e dai metodi utilizzati durante l’interrogatorio, mentre l’evidente sproporzione tra l’accusa e la pena induce a interrogarsi se l’appartenenza del ragazzo alla minoranza sciita sia stata determinante nella decisione di applicare la pena capitale.
Un fenomeno di segno opposto ma sostanzialmente equivalente in quanto a perplessità suscitate è quello a cui si assiste in Iran. Anche qui, infatti, esiste una vasta e documentata repressione settaria del dissenso politico delle minoranze etnico-religiose, sunniti in particolare. Contro i dissidenti politici, infatti, viene mosso un corpus di accuse perfettamente equiparabile a quello esistente in Arabia Saudita. Uno dei casi più recenti è quello del giovane curdo Shahram Ahmadi, ricordato dall’International Campaign for Human Rights in Iran, condannato alla pena capitale permoharebeh, reato corrispondente alla heraba saudita, vale a dire per il suo attivismo e per la contestazione mossa al governo iraniano: l’impostazione settaria della sentenza in questo caso emerge, secondo quanto riporta il sito, da una delle argomentazioni del giudice, il quale addita il sunnismo di Shahram quale aggravante del reato.
Quello che risulta chiaramente dagli esempi addotti è l’esistenza di una forte radicazione in entrambe le realtà dell’intransigente faziosità ideologica che accompagna la repressione del dissenso politico da parte dello Stato, il quale si pone come obiettivo quello di mantenere inalterato lo status quo politico, incriminando in generale qualunque tipo di attivismo e in particolare quello espresso dalle minoranze. La situazione che va delineandosi, secondo alcuni analisti, può essere paragonata a quella esistente durante la Guerra Fredda: i due rivali in questione, Iran e Arabi Saudita in questo caso, si contendono l’egemonia regionale confrontandosi indirettamente tramite una serie di proxy wars e, basandosi su una politica interna con forti connotati settari, contribuiscono ad alimentare le tensioni sociali e l’ostilità nei confronti delle minoranze, considerate potenziali nemici dentro i confini nazionali.
Più che a una “guerra di religione” intra-islamica, quella cui stiamo assistendo è una “guerra fredda”, con conflitti per procura, tra Tehran e Ryad.
Altri analisti, invece, parlano di una “Guerra dei Trent’anni” islamica, sottolineando con ciò l’analoga strumentalizzazione delle divisioni etnico-religiose da parte dei governi al fine di affermare il proprio dominio politico. Infine, è innegabile come il progressivo affermarsi di attori non statali di varia natura e il cui discorso politico è strutturato intorno alla retorica settaria contribuisce ulteriormente a incrementare le tensioni e ad acuire il fenomeno nei paesi del Golfo. Una soluzione efficace a tale problema, pertanto, deve prevedere un’azione sia a livello micro, sul piano delle politiche interne, sia a livello macro neutralizzando quelle formazioni extra-statali che fomentano il settarismo. Fondamentale, in conclusione, sarebbe l’avvicinamento tra Iran e Arabia Saudita, possibilità che, secondo quanto riporta il sito arabpress.eu citando l’Economist, necessita di alcuni punti fondamentali, tra cui l’allentamento della tensione riguardo alla Siria e l’accettazione da parte dell’Iran dell’influenza saudita sullo Yemen.

NOTE:

Fatima Ezzahra Ez zaitouni è stagista del programma "Nordafrica e Vicino Oriente" dell'IsAG.

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