Chi sono e da dove vengono i foreign fighters, la "legione straniera" dell'ISIS

mar 10, 2015 0 comments

Di Giorgio Cuscito

Jihadi John, il terrorista incappucciato comparso in molti video diffusi dallo Stato Islamico (Is), è stato recentemente identificato. Il suo nome sarebbe Mohammed Emwazi, nato in Kuwait, ma cresciuto nel Regno Unito. Emwazi è diventato il più celebre tra i “combattenti stranieri” (o foreign fighters) che si recano in Siria e in Iraq per arruolarsi nelle fila dell’Is. Come dimostrano gli attacchi di matrice di jihadista compiuti in Occidente tra il 2014 e il 2015, il cui apice è rappresentato da quelli di Parigi, il pericolo è che questi una volta addestrati alla guerriglia conducano attentati nei paesi d’origine.
 
Il problema dei foreign fighters è in primo luogo il riflesso di una guerra tra musulmani, che infatti fa vittime soprattutto musulmane. Il conflitto principale, con epicentro in Iraq e Siria, coinvolge attori regionali (Arabia Saudita, Iran e Turchia) e locali. Questo influenza teatri instabili in Africa (Libia, Somalia), Golfo (Yemen) e Asia Centrale (Afghanistan). In tale contesto, la religione è uno strumento di legittimazione più che la causa. L’Occidente è toccato in maniera tangenziale da tali sviluppi, ma quanto basta per determinare una minaccia alla sua sicurezza.
 
Da dove vengono i combattenti stranieri
 
foreign fighters dell’Is sarebbero in totale circa 20 mila. Questi provengono soprattutto da paesi nordafricani e mediorientali, tremila dalla sola Tunisia. E almeno tremila, secondo la Relazione annuale sulla politica della sicurezza realizzata dall’intelligence italiana,sarebbero i combattenti partiti dall’Europa. I principali paesi di origine sarebbero Regno Unito, Francia, Belgio e Germania. A questi si aggiunge la Russia, che conta circa 800 combattenti stranieri (vedi carta). Quelli provenienti dall’Italia sarebbero circa cinquanta. Secondo i servizi, il Bel Paese è al momento un “potenziale obiettivo” di attacchi, anche se ad oggi “non sono emerse attività o pianificazioni ostili in territorio nazionale riconducibili allo Stato Islamicoo ad altre formazioni del jihadglobale”.
 
La Turchia è un hub di transito fondamentale verso l’Iraq e la Siria. In questi anni, da ogni parte del mondo guerriglieri sono passati per il confine turco-siriano per arruolarsi nelle tante milizie (tra cui quelle qaidista e l’Is) che combattono il regime di Bashar al Asad. Ciò è avvenuto con il consenso del governo di Ankara, che considera quello di Damasco un antagonista.
 
Terminata l’esperienza in questi teatri di guerrai foreign fighterspresentano i requisiti strategici per colpire in Europa: addestramento alla guerriglia, potenziale libertà di circolazione nell’Ue e contatti con gli estremisti operanti in Medio Oriente. Tuttavia, il loro ritorno in patria non è scontato. Per vari motivi: questi possono essere uccisi in battaglia, decidere di restare nelle zone di guerra, essere arrestati dai servizi d’intelligence oppure essere delusi dalla stessa causa per cui hanno deciso di lottare.  
 
I combattenti stranieri del Vecchio Continente 
 
foreign fighters provenienti dall’Europa sono soprattutto giovani musulmani immigrati di seconda o terza generazione che provano un forte senso d'inadeguatezza, spesso determinato dalla disoccupazione o dalla difficoltà a integrarsi nella società. Questi individuano nel jihad uno strumento per fuggire dalla disperazione, una via per la realizzazione personale.
 
La storia di Mohammed Emwazi lascia intendere che lo Stato Islamico esercita il suo fascino non solo sugli strati più bassi della società. Secondo quanto riporta il Washington Post, Emwazi nasce in Kuwait, ma cresce a Londra in una famiglia benestante e nel 2009 si laurea come programmatore informatico. Nel corso degli anni l’intelligence britannica lo tiene sotto controllo, ritenendo che voglia unirsi all’organizzazione terroristica al Shabab, operante in Somalia. Si reca in Kuwait, dove afferma di aver trovato lavoro. Torna nel Regno Unito due volte, ma la seconda i britannici gli impediscono di raggiungere di nuovo l’emirato. In una mail inviata ad Asim Qureshi, direttore diCage, un’organizzazione britannica che si occupa delle “comunità colpite dalla guerra al terrorismo”, afferma di sentirsi “imprigionato”. Nel 2012 fugge in Siria. Due anni dopo, fa la sua comparsa Jihadi John, che in un video diffuso dall’Is, con volto coperto, accento britannico e coltello in mano decapita il giornalista americano James Foley. Da lì i servizi d’intelligence di Usa e Regno Unito iniziano la caccia all’uomo. Il jihadista poi figura in almeno altri sei video diffusi sul Web. Nell’ultimo, decapita il giapponese Kenji Goto.
 
Tra i combattenti stranieri vi sarebbero anche convertiti all’Islam dell’ultimo minuto, idealisti delusi, ribelli, che nel ”califfato” di al Baghdadi trovano una causa per cui combattere e - in via teorica – la prospettiva di un nuovo “Stato” in cui vivere, che promette benessere, medicine gratis e giustizia sociale. In tale contesto, alcuni analisti hanno rilevato, con le dovute differenze, delle somiglianze tra questa tipologia di jihadisti occidentali e coloro che negli anni Settanta e Ottanta entrarono a far parte delle Brigate Rosse in Italia e della Rote Armee Fraktion (Raf) nella Germania Ovest.
 
L’aumento dei combattenti stranieri e degli attentati di matrice jihadista in Occidente (in CanadaBelgioAustraliaFrancia e Danimarca per citare gli ultimi) dovrebbe spingere a riflettere sull’origine delle difficoltà d’integrazione sociale di questi soggetti. Sulle loro vulnerabilità punta lo Stato Islamico per fare proselitismo sia in luoghi fisici, come moschee radicali e carceri (dove, per esempio si sono conosciuti due degli attentatori di Parigi) sia su Internet, dove l’opera di propaganda è costante. A tal proposito, recentemente i media italiani hanno riportato la notizia di un documento in italiano diffuso sul Web con il titolo “Lo Stato Islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare”. Alcuni ne hanno riportato anche il testo integrale, una pratica adottata da molti media occidentali. La massiccia pubblicizzazione indiretta di questo genere di materiale rischia paradossalmente di amplificare la portata della propaganda dell’Is, agevolandone la diffusione del terrore e l’opera di proselitismo. A tal proposito, “il califfo” sarebbe d’accordo con Oscar Wilde nel dire che “bene o male, l’importante è che se ne parli”. 


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