Di Enrico Maria Secci
Gioia, entusiasmo, felicità , armonia, desiderio, speranza, equilibrio, soddisfazione, appagamento, motivazione,slancio, fiducia, energia, benessere, determinazione, vitalità .
Quando hai pronunciato o sentito pronunciare l’ultima volta con convinzione e pienezza una di queste parole?
Alla tv o alla radio, forse, probabilmente in uno spot pubblicitario o tra le rime di una canzone. Più raramente o mai, nei discorsi della gente per strada o al telefono con un amico, o conversando con un conoscente.
Le categorie del pensiero positivo fanno sempre meno parte del parlare comune mentre vengono abusate dal linguaggio pubblicitario che le spreme e le svuota di senso, le snatura e le spalma sui prodotti più voluttuari per rivenderli con il deteriore valore aggiunto del consumo felice e l’illusione di acquistare uno status carismatico.
Alla tv o alla radio, forse, probabilmente in uno spot pubblicitario o tra le rime di una canzone. Più raramente o mai, nei discorsi della gente per strada o al telefono con un amico, o conversando con un conoscente.
Le categorie del pensiero positivo fanno sempre meno parte del parlare comune mentre vengono abusate dal linguaggio pubblicitario che le spreme e le svuota di senso, le snatura e le spalma sui prodotti più voluttuari per rivenderli con il deteriore valore aggiunto del consumo felice e l’illusione di acquistare uno status carismatico.
Crisi, insicurezza, depressione, conflitto, bisogno, rassegnazione, squilibrio, insoddisfazione, apatia, stallo, sfiducia, stanchezza, malessere, indecisione, noia. Del vocabolario del malessere trabocca l’informazione, giornali e tv indugiano ben oltre il dovere di cronaca sul ritratto di una società greve e decadente. Anche la nomenclatura del malessere é un business da sfruttare, un affare, tra l’altro, molto più facile e suggestivo in una quotidianità dove le parole nere sono diventate un fulcro di democratica astenia.
La prova del nove é chiedere a qualcuno: “Come stai?” E sentire: “Si tira avanti”, “Benino”, “Non me lo chiedere”, “Si potrebbe stare meglio …”, “Di m***da”, osservare un cambio immediato di discorso del tipo “E tu …?”, o ricevere risposte di livello leopardiano sull’ineluttabilità degli eventi che colpirebbero il nostro interlocutore per cause pressoché costanti: infelicità sentimentale, soldi e lavoro o lavoro e soldi.
Quelli che osano esprimere un pensiero positivo, che si mostrano sorridenti e felici, quelli che lavorano positivamente sulle proprie emozioni e, coerentemente col proprio stato d’animo, provano a intaccare lo status quo istituito dalla cultura del malessere vigente sappiano che verranno tacciati di idealismo, di stupidità , di alterigia, di falsità o, addirittura, di pazzia. Così, gli individui felici e gioiosi, gli individui speranzosi e ricchi d’iniziativa si trasformano nella nostra bella società da risorsa per la collettività in profughi, in “invisibili sociali” o in “cervelli in fuga”.
Gente che dà fastidio perché sta bene, anche se non prospera nella stratosfera delle isole Cayman e dei paradisi fiscali, anche se non abita nei palazzi di lusso e del potere. Gente che dà fastidio perché sta bene, perché conosce, esplora e utilizza controcorrente le categorie dimenticate della psicologia del benessere, e su queste orienta le proprie azioni, costi quel che costi, per perseguire obiettivi anziché lasciarsi avvolgere dal manto infeltrito e maleodorante di un’ideologia del malessere.
Gioia, entusiasmo, felicità , armonia, desiderio, speranza, equilibrio, soddisfazione, appagamento, motivazione, slancio, fiducia, energia, benessere, determinazione, vitalità potrebbero essere il tema della nostra esistenza, il centro dei nostri pensieri e l’obiettivo di ogni nostra azione, se non fosse che cresciamo e precipitiamo facilmente in una cultura depressiva e fuorviante. Una cultura che scoraggia l’autonomia e l’iniziativa, che punisce o tormenta la creatività , che svilisce e banalizza la tensione verso l’indipendenza e l’auto-realizzazione. In troppi, così, fin dall’età più giovane sono allevati nella culla austera del negativo e del limite , che finiscono per abbracciare con la stessa foga con cui si dedicano alla ricerca del superfluo. Un capo di marca, le scarpe “giuste”, i cibi e i servizi propagandati dalla pubblicità con lo charme di quel linguaggio meraviglioso e perduto che avrebbe potuto tracciare ben altre rappresentazioni di se stessi e scelte più felici.
Cosa accadrebbe se ognuno di noi, soggettivamente, si incaricasse di coltivare con perseveranza, fiducia e speranza le proprie attitudini? Se sapessimo dire: “Sto bene!” e se sapessimo raccontare i nostri sogni come progetti realmente possibili e ci impegnassimo a trovare i termini per programmarli e realizzarli? … In ogni caso, avremmo per prima cosa bisogno di riappropriarci della psicologia della gioia, di pensare parole positive e di coniugare verbi che abbiamo quasi dimenticato.
La ricchezza usurpata delle nostre parole è la prima cosa di cui potremmo occuparci per costruire una rappresentazione migliore di noi stessi, della nostra vita, degli altri e del mondo che ci circonda. Il linguaggio è quel patrimonio che, più di tutti, sperperiamo, dimenticandoci che è la linfa della nostra psiche e che da esso dipende il corso della vita stessa.
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