La scuola potrebbe essere la soluzione di tutti i nostri problemi. E dobbiamo smettere di massacrarla

set 12, 2018 0 comments
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Di Francesco Cancellato
E così, grazie a Tuttoscuola e all’Espresso, abbiamo scoperto che tra il 1995 e oggi uno studente su tre ha lasciato la scuola prima del tempo. Che ancora oggi, anno 2018 hanno abbandonato banchi e libri 151mila ragazzi, uno su quattro. Che tra i dati di tutti i Paesi europei, il nostro è uno dei peggiori, al solito: pari al 14,1% tra i ragazzi tra i 18 e 24 anni, secondo Eurostat, laddove la media europea si ferma all’11% e solo cinque Paese - Islanda, Spagna, Malta, Romania e Portogallo - fanno peggio di noi. Che mentre noi ci occupavamo di tutt’altro, questo giochino ci è costato 55,4 miliardi di soldi buttati in istruzione inutile, settemila euro all’anno per ogni studenti che ha abbandonato.
Proviamo a ribaltare la questione, però. Perché questo dato è uno dei tanti che ci dimostrano come in quel colabrodo che è la scuola di oggi, in realtà, si celino le soluzioni a molti dei nostri guai. O, per dirla meglio, che se avessimo la consapevolezza che la scuola è il frattale della nostra società di domani, che tutti i problemi dell’Italia di oggi derivano da scelte sbagliate nelle scuole di ieri, e se provassimo a cambiare il corso del destino e a migliorare le cose, cominceremmo a risolvere un problema molto più grande all’interno della società. Il caso della dispersione scolastica, altissima ma in diminuzione, è esemplificativo. Il cosiddetto fallimento formativo ha infatti costi individuali e sociali ben definiti: meno opportunità lavorative, marginalità sociale, minore aspettativa di vita, elevato rischio sanitario e di tossicodipendenza. Se risolvessimo il problema alla fonte, avremmo meno disoccupazione e meno spesa sociale e sanitaria domani.
Non solo. Sempre L’Espresso, prodigo di bagni di realtà, ci informa anche che in Italia non c’è mobilità intergenerazionale dei redditi, che metà del reddito dei figli dipende dal reddito dei genitori, che in nessun posto in Europa c’è una tale dipendenza e ineluttabilità tra la ricchezza dei padri e la ricchezza dei figli. Ancora: indovinate qual è, se mai ve lo ricordate, l’ascensore sociale per antonomasia? Indovinate com’è che il figlio dell’operaio può diventare dottore? Ancora una volta, la scuola potrebbe essere la soluzione a un altro dei nostri guai. Ad esempio, potremmo decidere di abbassare le tasse universitarie, tra le più alte in Europa, sei volte più alte di quelle che paga un giovane francese. Tasse che tra il 2005 e il 2015 sono lievitate del 45%. Se il principio è studia chi può permetterselo, e non studia chi se lo merita, l’ascensore sociale rimarrà fuori servizio ancora per un bel po’.
Lo stesso vale per la disoccupazione giovanile, la più alta in Europa dopo quella greca e spagnola. Sono i dati di una recente ricerca di McKinsey a dirci che il 40% della disoccupazione giovanile italiana non dipende dal ciclo economico, bensì dal disallineamento tra il sistema educativo e quello produttivo. E sono i dati Ocse a dirci che non c’è Paese in Europa in cui questo disallineamento - gli inglesi lo chiamano skill mismatch - è più marcato. seguito da Spagna, Repubblica Ceca, Irlanda e Austria. E sono i dati del Rapporto Almalaurea 2017 ce lo ricordano brutali: che negli ultimi dieci anni il tasso di disoccupazione dei laureati è aumentato di otto punti percentuali; che a un anno dalla laurea, due laureati magistrali su dieci sono ancora senza lavoro; e che l’Italia è l’unico paese tra i grandi d’Europa ad aver visto decrescere, negli ultimi dieci anni, gli occupati in posti ad alta specializzazione. Abbastanza per dire che se riuscissimo a lavorare sull’offerta formativa e sull’orientamento scolastico, per evitare che gli studenti scelgano percorsi che non hanno alcuno sbocco professionale, forse ci eviteremmo di essere il fanalino di coda del continente.
Già che ci siamo, è sempre a scuola che si costruisce l’attitudine all’innovazione delle nostre imprese. Ad esempio, è probabile che la scarsa propensione al digitale e all’internazionalizzazione delle imprese italiane dipenda dalla scarsa formazione del loro management: del resto, solo un manager italiano su quattro ha una laurea in tasca, mentre nel resto del continente la media è del 54%, e non stiamo facendo nulla per invertire la rotta. Anzi, lauree e titoli di studio superiori valgono sempre meno, nel nostro Paese. Penultimi nell’area Ocse, davanti al solo Messico, col nostro 18% di laureati sul totale della popolazione, contro il 37% del dato medio. Penultimi in Europa per il numero di laureati, 26 ogni 100, nella fascia d’età tra 30 e 34 anni e con un abbandono universitario che si aggira attorno al 38%. A picco nel tasso di passaggio dalle scuole superiori alle università nei dieci anni tra il 2005 e il 2015, dal 73% al 49. Fanalino di coda nei laureati tra i 30 e i 40 anni, fermi a quota 22,4%, quando l’obiettivo era raggiungere il 40% nel 2020. Anche in questo caso: che Paese saremmo se avessimo il doppio dei laureati, se lo fosse un manager su due?
Di sicuro, saremmo un Paese più attrattivo. E invece, oggi, stando alla ricerca sulle migrazioni qualificate in Italia pubblicata dall’Istituto di Studi Politici S. Pio V risulta che da noi risiedono appena 500mila laureati stranieri e che la loro incidenza è pari al 7% sul totale dei laureati residenti nel nostro Paese, un valore decisamente inferiore rispetto a quello di Francia (10%), Germania (11%) e Regno Unito (17%), soprattutto se si tiene conto del fatto che ognuno di questi paesi ha un numero di laureati decisamente superiore al nostro. 

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