Le straordinarie proprietà dell’olio di semi di canapa

set 21, 2015 0 comments


Di Roberta Martinoli
La canapa (Cannabis sativa) ha una storia molto affascinante. Grazie alla sua attitudine a crescere su terreni difficili e ai suoi molteplici usi, questa pianta ha goduto nel tempo di un discreto successo. Dalla canapa si estraevano già nei secoli passati sostanze oleose impiegate come combustibili e si ottenevano fibre tessili, farinacei e mangimi per gli animali.





Il declino di questa fruttuosa coltura sopraggiunse nei primi decenni del ‘900 quando venne univocamente associata alla sua azione psicotropa. Nel 1937 il Congresso Americano approvò il “Marihuana Tax Act”: attraverso una serie di regolamentazioni, presto estese a gran parte del mondo, la coltivazione della canapa a scopo industriale fu resa talmente inconveniente da venire in gran parte abbandonata.
Oggi però si torna a coltivare la canapa per uso alimentare.
Narra la leggenda che Buddha si nutrì solamente di canapa per 3 anni durante il suo periodo ascetico. Del resto oggi sappiamo che la canapa oltre ad essere un’eccellente fonte di acidi grassi polinsaturi (PUFA) contiene anche tutti gli amminoacidi essenziali (vale a dire quegli amminoacidi che non siamo in grado di sintetizzare e che quindi devono essere assunti con l’alimentazione). Anche se si tratta di una leggenda non è difficile credere che si possa sopravvivere per periodi prolungati mangiando solo semi di canapa dato il loro alto valore nutrizionale.
L’olio di canapa viene estratto per spremitura a freddo dei semi che si formano dai fiori femminili all’incirca a metà luglio. Di gusto gradevole può essere usato a crudo come condimento. Se ne vanta l’effetto anti-infiammatorio legato alla sua composizione in acidi grassi polinsaturi. Questi com’è noto si distinguono in w-6 e in w-3 a seconda della posizione del primo doppio legame rispetto all’atomo di carbonio terminale o carbonio w.
I principali acidi grassi w-3 sono l’acido α-linolenico (ALA), l’acido eicosapentaenoico (EPA) e l’acido docosaesaenoico (DHA). Gli w-3 hanno un ruolo fondamentale nel mantenere una corretta stabilità delle membrane cellulari. Queste a loro volta regolano il passaggio di nutrienti, di sostanze di rifiuto e di messaggeri chimici da e verso la cellula.
È attraverso questo meccanismo che gli w-3 sono in grado di:
  • favorire lo sviluppo e il mantenimento delle strutture nervose;
  • modulare la risposta infiammatoria;
  • migliorare l’elasticità delle arterie contrastando allo stesso tempo l’aggregazione piastrinica, riducendo i livelli di trigliceridi e aumentando il colesterolo buono.
Tutte queste azioni contrastano l’instaurarsi e il progredire delle malattie cardiovascolari. Per questo i medici consigliano l’assunzione di w-3 nei pazienti a rischio.
Tra gli w-6 ricordiamo l’acido linoleico, l’acido gamma-linolenico (GLA) e l’acido arachidonico (AA). Quest’ultimo è responsabile della produzione di prostaglandine della serie 2 (PGE2) e di trombossani ad attività pro-infiammatoria.
L’infiammazione è un meccanismo di difesa innato in grado di contrastare l’azione dannosa di agenti fisici, chimici e biologici. Il suo scopo ultimo è quello di eliminare la causa iniziale di danno cellulare o tissutale e di avviare il processo riparativo. Per questo è un bene che ci sia l’acido arachidonico con la sua cascata infiammatoria.
Dunque quando ci facciamo male per esempio schiacciandoci un dito in una porta questo si gonfia e diventa rosso, caldo e dolente per poter guarire.
Cosa diversa è invece l’infiammazione sistemica di basso grado legata all’alimentazione e allo stile di vita e responsabile di varie condizioni patologiche quali l’insulino-resistenza, il diabete mellito di tipo 2, l’ipertensione, l’aterosclerosi, l’Alzheimer.
Con l’identificazione delle lipossine prodotte dagli w-6 e delle resolvine, delle protectine e delle maresine prodotte dagli w-3 si è capito che l’infiammazione (sia quella che agisce in acuto quando entriamo in contatto con una noxa patogena, sia quella cronica di basso grado) non si risolve passivamente per esaurimento delle molecole ad azione pro-infiammatoria. Si tratta invece di un processo attivo anche se i meccanismi che lo determinano non sono stati del tutto chiariti.
Una cosa però l’abbiamo capita da tempo: l’importanza del rapporto tra w-6 e w-3. In epoca pre-industriale, quando si moriva più per cause infettive che per malattie cronico-degenerative, il rapporto w-6/w-3 era di appena 2-3:1. Ai giorni d’oggi a causa dell’elevato consumo di alimenti industriali si può arrivare a 12-14:1! Gli w-6 non sono di per sé né buoni né cattivi ma quando finiscono con il prevalere sugli w-3 l’infiammazione cessa di essere un meccanismo di difesa e si trasforma in un processo cronico foriero di malattie.
A questo punto non ci sembra più un caso se Buddha scelse la canapa perché i suoi semi contengono w-6 e w-3 in rapporto di 3:1! E non contengono invece, se non in quantità trascurabile il delta-9-tetraidrocannabinoide (THC), vale a dire il principio attivo ad azione psicotropa!
FONTI: Kuhnt et al. Searching for health benefiicial w-3 and w-6 fatty acid in plant seeds, Eur J Lipid Sci Technol (2012)

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