Ascesa e declino del mondo globale

apr 19, 2020 0 comments

Intervista di Verdiana Garau a Salvatore Santangelo per OSSERVATORIO GLOBALIZZAZIONE.

Aquilano, classe 1976, Santangelo è giornalista professionista e docente universitario. Esperto di politica internazionale e di storia del Novecento, studia la dimensione mitica nell’attualità occupandosi di “geosofia”: l’esplorazione “dei mondi che si trovano nella mente degli uomini” (John K. Wright – Berkeley 1947).
V.G. Grazie Salvatore per averci concesso questa intervista. Vorrei partire riportando alcune parole dal tuo libro, BABEL.
Tu scrivi: “la forza di quest’opera sta nella capacità di raccontare l’alienazione, lo sradicamento, per non perdere mai di vista le storie personali”.
Io vedo mappe e territori. Abbiamo questo grande pianeta globale e globalizzato, di cui però non ci è concesso conoscere tutto al dettaglio e in cui i dettagli sono stati sopraffatti da quella che è stata l’onda globalizzante stessa.
S.S. Innanzitutto grazie mille per l’interesse.
Comincerei subito ricordando che la mappa non è il territorio.
Pensiamo di poter utilizzare alcuni strumenti per leggere la complessità come una sorta di Google Map, ma poi – ogni volta che mettiamo i boots on the ground, ovvero quando abbiamo a che fare con la realtà concreta, con le storie degli uomini e con le loro dinamiche e dimensioni anche esistenziali – finiamo per perderci.
Ho voluto in qualche modo sollecitare il lettore, attraverso questo libro, sulla necessità che abbiamo di non dimenticare mai il tema che ruota intorno alle storie individuali e collettive – territori sulle mappe – cercando di differenziarmi dall’operato di molti altri colleghi che spesso tendono ad avere un approccio asettico alla geopolitica.
Nonostante io stesso appartenga alla scuola realista, tendo a discostarmi da quest’approccio e forse ciò deriva dal fatto che non sono un accademico puro: ho lavorato come giornalista, viaggiando molto, e non riesco a essere indifferente a questi temi. Si tende in generale a occuparsi di geopolitica in modo concettuale, provando a spiegare scenari come quelli libici o siriani, anche statunitensi o britannici, dimenticando però che all’interno di queste griglie ci sono anche percorsi paragonabili a cunicoli, gallerie, storie più tortuose e apparentemente nascoste, che sono le vicende reali con cui dobbiamo appunto fare i conti.
V.G. Scrivi inoltre “il nostro mondo si sta muovendo secondo dinamiche che sfuggono oramai alle vecchie chiavi interpretative a cui siamo stati a lungo abituati, (…) non sono che residudi unepoca che non è più, un retaggio del XX secolo, che hanno trovato la loro conclusione e la svolta con quello che è stata la caduta del muro di Berlino”.
Abbiamo qui individuato il punto di rottura che ha permesso alla globalizzazione di fare il suo ingresso, ovvero la caduta dell’URSS e prosegui poi parlando di “fenomeni ad alta intensità o frequenza” e li elenchi: la crescita economica della Cina, l’11 settembre, il processo di allargamento della Ue, i due mandati presidenziali di Barack Obama, leredità dei neocon, le guerre in Afghanistan, in Iraq e in Libia, le tensioni costanti in Africa, nei Balcani, nel Caucaso, le crescenti conflittualità di ordine religioso, il collasso delle istituzioni e delle pratiche multilaterali (a partire dallOnu e dal WTO), linternazionalizzazione dei mercati e le tempeste finanziarie, l’America first di Trump e le leadership di Putin e Xi Jinping.
In questi giorni che si parla molto di politica americana in vista delle prossime elezioni, vorrei rivolgerti una domanda di attualità:
Obama è tornato in pista recentemente, molti sono i video che girano su internet a sostegno di Biden e Bernie Sanders.
Come vedi gli endorsement di Obama ai socialisti americani in questo momento?
S.S. Certamente le prossime elezioni americane saranno fortemente condizionate da questa vicenda del coronavirus e dall’approccio iniziale che Trump ha avuto nei confronti della gestione dell’emergenza. Diciamo subito che il CoVid-19 ha messo in luce tutti i limiti di un modello economico che si nascondeva dietro statistiche e indici borsistici che non ci raccontavano la realtà, la verità, l’andamento dell’economia reale.
V.G. Quale verità?
S.S. La verità sono le file immense di persone che con la loro automobile si recano là dove sperano di ricevere il pacco alimentare o i buoni spesa e sono quelle immagini dei parcheggi di Las Vegas dove il distanziamento sociale degli homeless viene gestito e effettuato all’interno del parcheggio stesso.
Una società profondamente indifesa, dove il tema della diseguaglianza agisce come un acido corrosivo e rischia di far saltare i motivi stessi dello stare insieme, all’interno di un assetto statuario come quello americano.
E riporta in luce tutti i limiti del loro modello sanitario e assicurativo. Queste considerazioni, chiaramente al netto di quello che sappiamo realmente della Cina, poiché in realtà non sappiamo quale impatto il Co-Vid abbia realmente avuto sul Paese da cui ha avuto origine. Quello che vediamo però, è che gli Stati Uniti, che dovrebbero essere il Paese più evoluto e la prima economia nel mondo, sono oggi la realtà che presenta il maggior numero di contagi e il maggior numero di morti. Lo vediamo con le scene delle fosse comuni, le bare coperte di cemento, che ci descrivono di dinamiche assolutamente diverse da quelle che immaginavamo.
V.G. Quindi è stata facilmente rilanciata la sfida a Trump.
S.S. Trump – che a sua volta sta tentando di rilanciare la sfida al Co-Vid – ha provato a re-immettere nel dibattito pubblico quelle “parole d’ordine”, con cui aveva sedotto il ceto medio spiazzato dalla globalizzazione, ceto medio stanco dell’interventismo che si è sostanziato nelle infinite guerre in Medio Oriente, che hanno sfiancato l’opinione pubblica non solo per la perdita di vite umane, ma anche in termini di budget; parole d’ordine e suggestioni che nei primi anni della sua Presidenza sono state osteggiate dal DeepState ma anche dagli apparati del suo stesso partito Repubblicano.
Sappiamo bene che non è riuscito a seguire esattamente questa sua agenda, lo abbiamo visto con la Russia, nei confronti della Siria, con il mancato disimpegno in Afghanistan e solo il Co-Vid gli sta permettendo di rispolverare quelli che sono i suoi vecchi cavalli di battaglia. Ci dice molto anche l’attacco di qualche giorno fa all’Oms, come anche i tentativi di ridar fiato alle sue istanze di matrice sociale. Forse troppo poco e troppo tardi.
Considerando che una parte di questa agenda è interamente intercettata da Bernie Sanders, una vittoria dei democratici diventa adesso possibile su una piattaforma programmatica comune a tutto il partito proprio grazie alla mediazione propiziata da Barack Obama.
Nella precedente tornata elettorale, Sanders era arrivato a un tale livello di scontro con la Clinton che ciò era diventato impensabile. Sappiamo – grazie a WikiLeaks – che nelle scorse primarie, fu fortemente penalizzato dall’apparato del partito Democratico, che spesso aveva alterato il risultato a favore della Clinton. Complice dunque l’endorsement di Obama, a differenza di ieri, il partito democratico potrebbe essere più competitivo e quella che appariva come una rielezione certa di Trump, oggi è una partita aperta.
V.G. Cambierà la politica estera americana? 
S.S. In realtà non è chiarissimo cosa potrebbe cambiare. Basti riflettere sul fatto che la politica estera di Obama – per alcuni versi – sarebbe sovrapponibile a quella di Trump. La strategia obamiana – con il suo pivot to Asia – era un progressivo sganciamento dallo scacchiere mediorientale per affrontare quello che il Presidente considerava lo sfidante del futuro, cioè la Cina.
Questo è anche nelle intenzioni di Trump, ma il fronte aperto con la Russia e quello con la Siria non hanno reso possibile l’implementazione di questa strategia.
V.G. Come si muoverà Joe Biden?
Dipenderà molto dal suo segretario di Stato. Gli americani sono certamente stanchi e logorati a livello internazionale. Anche questo tentativo di pace negoziata con i talebani determina il fallimento delle avventure neocon.
V.G. Questa America sovraestesa, che detiene ancora la rete più forte e più diffusa militarmente con le sue basi sparse sul tutto il globo, si scontra con le altre potenze emergenti. Nel tuo libro sottolinei che una volta si parlava di Guerra Fredda e quindi dei due grandi blocchi, ma che “oggi non c’è più solo est ovest, ma anche nord e sud”. Si ridimensioneranno gli Stati Uniti?
La globalizzazione è divisiva e i cinesi insegnano che è nel vuoto che si riesce a penetrare?
S.S. Il concetto che tu accenni mi dà l’opportunità di sviluppare una riflessione: nell’era della globalizzazione la questione non si gioca più sul fronte Stato contro Stato, ma si manifesta come una verticalizzazione delle contrapposizioni all’interno di ogni singola realtà. In estrema sintesi, saremmo di fronte alla riproposizione del vecchio concetto di Guerra civile europea ma riproposta su scala globale: una guerra civile mondiale, dove si scontrano il fronte globalista e quello anti-globalista.
Questa guerra non vede due eserciti nettamente schierati da una parte e dall’altra, ma anche parti dello stesso schieramento, spalmati trasversalmente. Trump in questo scenario ne è certamente l’esemplificazione, con le sue policies, in particolare i dazi, che rappresentano il tentativo di “chiudere” il mondo o quantomeno ridisegnarlo per comparti economicamente e culturalmente omogenei.
Il commercio, nella visione di Trump, dovrebbe avvenire solamente tra Paesi che possono applicare il fair trade, cioè un commercio gestito a condizioni di parità.
I dazi, infatti, sono lo strumento di riequilibrio tra le parti per correggere le eventuali storture. Ma sempre negli Stati Uniti c’è un’altra parte di potere, quello dei “signori del silicio”, che sono tutti schierati sul fronte globalista, con il politically correct che è la matrice cultura prevalente a Hollywood.
Nel contesto globale, oltre agli Stati Uniti, ci sono le forze sovraniste europee, come la Lega, il Fronte Nazionale, che hanno la stessa posizione trumpista, e nel contempo, sempre in Europa, abbiamo per esempio realtà come le piattaforme economiche del Made In Italy, largamente favorite dalla globalizzazione e quindi favorevole al suo mantenimento.
V.G. l’Islaresta l’ultimo baluardo non penetrato dal fenomeno della globalizzazione.
L’Islam ha un rapporto ambivalente con la globalizzazione in questo contesto?
S.S. Le masse islamiche si specchiano con l’Asia e percepiscono che qualcosa è andato storto nella loro storia, il loro treno è deragliato. Il tema del radicalismo e dell’integralismo, quindi il tentativo di ricostruire un passato glorioso, attingono alla memoria dei primordi, all’alba del VI secolo che vide appunto la nascita di un impero esso stesso globale in grado di raggiungere il suo apogeo nel giro di cento anni ma che a partire dal 1700, da più grande nemico dell’Europa ne divine preda. Questa disfatta ha creato un profondo malessere, amplificato dal fatto che tutte le strade che i popoli islamici hanno intrapreso per accedere alla modernità, come il tentativo di mutuare dall’Occidente ideologie e assetti istituzionali, sono falliti uno dopo l’altro.
Tutto ciò si è accresciuto ancora di più quando milioni, miliardi, di esseri umani in Cina e nel sud est asiatico, sono entrati nella globalizzazione, arrivando a gareggiare con le altre potenze mondiali sul versante prima economico e poi politico.
Il tema dell’Islam è quello di una profonda frustrazione, soprattutto nei giovani e lo abbiamo visto con le Primavere arabe. L’islam ha un rapporto fortemente ambivalente con la globalizzazione. Lo stesso 11 settembre denota questa ambivalenza, perché le menti che hanno disegnato un piano come quello dell’attacco alle Torri Gemelle, immaginavano di fermare un aspetto della globalizzazione, che è quello culturale e che secondo loro più minaccia l’Islam stesso. E ciò perché la maggior parte delle ricchezze dei Paesi musulmani derivano dal petrolio. L’economia del petrolio – marxianamente – si è sviluppata senza che questi Paesi e le loro classi lavoratrici abbiano vissuto l’esperienza della fabbrica che sappiamo essere, pur con tutte le sue criticità, il primo motore di trasformazione per la modernizzazione dei popoli. Quindi, quello che spaventava e spaventa le classi dirigenti del mondo arabo, è la globalizzazione culturale veicolata dal mainstreamDietro l’11 settembre possiamo intravedere questo disegno: mantenere inalterato lo scambio del petrolio e del gas, ma – radicalizzando le opinioni pubbliche – cercare di bloccare i processi di omologazione culturale.
V.G. La rivoluzione è borghese…
S.S. Le primavere arabe di Obama potevano essere un tentativo di trovare un accordo con l’Islam politico e così è stato interpretato da gran parte delle leadership di quei Paesi.
Se dovessimo schematizzare tutto ciò, tramite le suggestioni che tu stessa hai evocato, potremmo dire che sul fronte della globalizzazione certamente troviamo la Cina che è il Paese che più si è avvantaggiato dalla globalizzazione stessa e dove questo processo di fatto comincia nel 1978, quando Deng Xiaoping lancia le parole d’ordine sull’arricchimento e crea per gli investitori occidentali le giuste condizioni per permettere loro di sfruttare la manodopera cinese.
V.G. Anche l’Europa si è avvantaggiata moltissimo, la Germania?
S.S. Insieme alla Cina c’è certamente la Germania che rappresenta una straordinaria storia di successo. Un Paese che conta poco più di 80milioni di abitanti e che ha il più grande surplus commerciale al mondo e che ha convertito totalmente il suo modello economico orientandolo all’esportazione e che oggi strenuamente difende questo tipo di modello. Cina e Germania sono schierati sul versante della globalizzazione.  
La Russia di Putin in questa fase è certamente antiglobale, come lo è Trump e tutti gli altri esponenti sovranisti. Poi ci sono Paesi come l’Italia e la Francia, che oscillano tra un interesse nazionale che li porterebbe a mantenere aperti i mercati per la loro vocazione all’export e al contempo un’insofferenza dei propri ceti medi che invece sono stati fortemente spiazzati, dalla globalizzazione.
V.G. Andiamo adesso in Oriente e partiamo dalla citazione di un libro al quale sono molto legata che è “The Argumentative Indian” di Amartya Sen, autore a cui tu fai spesso riferimento nel tuo “Babel”.
Qui ho un capitolo che si chiama “Poverty and Social Opportunity” in cui Sen sottolinea come i Paesi asiatici tali la Cina, la Corea, la Thailandia e tutto il sud est asiatico, abbiano enfatizzato il loro commercio avvantaggiandosi del mercato globale, ma come questo sia stato possibile con l’ampia partecipazione statale a questa espansione economica. Vorrei sapere, se secondo te, in questa fase di transizione della globalizzazione, l’India, essendo il Paese del caos per eccellenza, multirazziale, multiculturale, multietnico, multireligioso, dai suggestivi tratti apocalittici, si potrà inserire a livello geopolitico come mediatore in futuro. L’India, con tutti i suoi difetti è anche la più popolosa democrazia del mondo, ha ottimi rapporti con gli Stati Uniti, i migliori per un Paese asiatico, è liberale, plurale, pluralissima, tecnologicamente molto avanzata e molto vicina all’Islam, anche per affinità storiche.
S.S.  Sappiamo che l’India fu inserita nell’acronimo (coniato dal chairman di Goldman Sachs, Jim O’Neill) BRICS, ad indicare: Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa.
Secondo O’Neill e altri, questi cinque paesi avrebbero potuto creare i presupposti di un mondo multipolare. In realtà, l’unico Paese che è riuscito a mantenere le promesse è stata la Cina, poiché tutti gli altri hanno in sé elementi di fortissima criticità. La Russia per esempio non si è mai ripresa dal collasso dell’Unione Sovietica.
Ce lo dicono l’andamento demografico e la recente perdita dell’Ucraina, che mostra l’indebolimento della Russia anche nel presidiare la propria sfera di influenza più prossima; assieme alla fragilità di un sistema economico troppo legato alle esportazioni di materie prime e quindi vulnerabile alle criticità del contesto internazionale. E vengo al dunque.
L’India ha un grave problema: la povertà e tutto quello che ne consegue, come l’analfabetismo e le estreme diseguaglianze. E ciò nonostante sia la più grande democrazia del mondo. Al suo interno, a fatica, è riuscita ad arginare i numerosi conflitti; ricordiamo che Ghandi stesso è stato assassinato.
Ci sono delle lacerazioni interne al Paese troppo violente ed esplosive, che si manifestano in veri e propri pogrom nei confronti delle minoranze, e che ci raccontano anche del disagio di vite condotte nella miseria assoluta.
Qui emerge la grande differenza tra l’India e la Cina: le fogne.
In Cina non esistono slums, infatti nonostante tutto quello che si può dire di questo Paese, si deve rendere atto a Pechino di aver tirato fuori dalla povertà centinaia di milioni di esseri umani senza creare quelle periferie incontrollabili come accaduto altrove nel mondo, e ciò grazie al polso fermo del Partito Comunista che a oggi ancora annovera nei suoi ranghi qualcosa come 80milioni di iscritti. L’India è sicuramente protagonista a livello internazionale, molti indiani siedono ai vertici delle più importanti sovrastrutture globali, come Gita Gopinath che è Chief Economist del FMI. Ma in India sono troppi a essere rimasti indietro e un Paese che non ha una base larga non si può sostenere da solo di fronte a scosse particolarmente violente come il Co-Vid, di cui l’India per altro è un enorme buco nero di cui poco o nulla sappiamo.
V.G. In Cina il processo di sinizzazione è antico. In India questo non è mai avvenuto. Ci sono troppe differenze? È troppo purale? Modi sta tentando la strada della nazionalizzazione, può riuscirci?
S.S. Noi occidentali abbiamo sempre un metro di giudizio alterato rispetto a queste realtà. Dimentichiamo spesso alcuni dati. Prima della guerra civile tra il KuoMingTang e Mao ben 10 milioni di cinesi persero la vita lottando contro i Giapponesi, come anche i tre milioni di bengalesi morti durante la campagna di Birmania di fame e stenti per il blocco inglese o come i caduti tra Pakistan, Bangladesh e India: milioni di morti e decine di milioni di sfollati.
Se in Pakistan l’omogeneità religiosa è stata trovata, certamente questo in India appare ancora lontano.
Se quello che tu dici è vero, cioè che il processo di nazionalizzazione in India è un’altra delle grandi sfide, noi sappiamo però che anche il Partito Comunista Cinese è ossessionato dal concetto di unità. Questa ossessione è alimentata dalla paura di potenziali spinte centrifughe, pensiamo agli Uiguri, minoranza musulmana, o al Tibet.
V.G. Si respira ansia e panico a livello sociale, siamo ad un passo dalla guerriglia?
S.S. Sì, ma non più come una volta. I problemi oggi sono piuttosto legati alla potenziale insorgenza di rivolte endemiche, causate da quella diseguaglianza sociale che ha la capacità di corrodere come un acido i motivi stessi della convivenza civile. Cioè la disparità degli esseri umani all’interno di uno stesso Stato sono talmente forti da lacerare e spezzare i vincoli di solidarietà, a tal punto che un operaio sente di non avere più nulla in comune con un’altra persona, che magari abita in una penthouse sull’Upper East Side. Ma quello che manca – a differenza dei due secoli precedenti – è la costruzione di una chiara alternativa economica e sociale.
V.G. Stiamo sperimentando oggi il distanziamento sociale. Abbiamo la globalizzazione di internet che potrebbe essere un fattore positivo, di fronte a quello che si è rivelato negativo come la globalizzazione dei mercati. Il tempo del mercatismo, come lo ha denominato Tremonti, è tramontato. Abbiamo bisogno di trovare un modo per convivere e non ci dobbiamo dimenticare che l’esplosione demografica degli ultimi decenni è stata quasi mostruosa. La globalizzazione culturale è irrevocabile?
S.S. Nel mio tentativo di descrivere la globalizzazione, faccio notare che – nel corso della storia umana – si sono alternati periodi di apertura e di chiusura nel mondo.
Non esiste una sola globalizzazione, ma l’attuale che, possiamo far nascere dal 1978/79, e che poi esplode dall’89 al 1991, è poi sfociate nella grade crisi del 2008.
Oggi le sue contraddizioni si manifestano in tutta la loro forza con il problema del Co-Vid.
Abbiamo il risultato di tre poderosi flussi che si sono messi in movimento e che hanno determinato l’esito della Guerra Fredda.
Quello che tu chiami “la globalizzazione di internet”, è il flusso di informazioni reso possibile tramite la rete globale, quella satellitare, i networks e i mezzi di informazione, e che pur nella moltiplicazione dei punti di vista diversi, è compressa nel mainstream.
Poi c’è il flusso economico che ha in sé due aspetti: il primo è la delocalizzazione, il secondo quello dei capitali che cercano oltre al più basso costo del lavoro, la massima remunerazione e la minor tassazione. Infine abbiamo il terzo flusso, quello del flusso degli esseri umani. Gli uomini si mettono in movimento, su due traiettorie: all’interno degli stessi Stati, dalla campagna alla città, – che ha comportato una vera e propria rivoluzione sociale – e la migrazione degli uomini dal sud verso il nord del mondo.
Il problema è che, come tutti i fenomeni fisici, ogni flusso genera un blow back, come lo chiamano gli anglosassoni, ovvero un ritorno di fiamma. Ogni flusso globale ha generato così un reflusso antiglobale. Ansia, rabbia, richieste di strumenti come dazi, politiche disincentivanti, allo scopo di contenerli. Non a caso oggi c’è un ritorno delle culture identitarie che trovano voce nelle forze anti-immigrazione.
Le forze globali e anti-globali a questo punto della storia, sono quasi in equilibrio. Trump poteva cambiare questi equilibri, ma poi si è abbattuto il Co-Vid.  
V.G. Alcuni risultano essere i vincitori della globalizzazione, la scienza ad esempio che è un aspetto della cultura e del suo avanzamento.
S.S. Sì, e il mondo di domani potrebbe essere un mondo stratificato.
Potremmo cioè avere la cultura scientifica che di per sé è globale, dove tutti gli scienziati condividono e trasmettono il sapere e le informazioni. Quando il vaccino diventerà patrimonio dell’umanità saremo un passo avanti su questo percorso.
Poi c’è l’ambiente, che investendo tutto il globo e prevede un’azione politica di tipo globale.
Ci saranno le big corporate, le grandi agenzie di consulenza globale e soprattutto le grandi compagnie di assicurazioni. Secondo me assisteremo a un powering shift in cui il potere si sposterà dagli assetti finanziari alle assicurazioni, data la necessità di ancorare l’incertezza.
In basso, certamente, gli sconfitti della globalizzazione.
V.G. Ultima domanda. Tu scrivi, “il futuro ha un cuore antico” e fai menzione al richiamo dell’origine comune. Questo mondo globale potrebbe tornare a essere un giorno l’Atlantide mitologica?
S.S. Potrei dire che questo è il capitolo mancante del libro e noto che tu hai intuito la direzione che avevo intrapreso. Partiamo dai due miti fondativi di cui ho parlato in Babel: Esiodo e il mito biblico. Secondo quello biblico, gli uomini all’origine sono tutti uniti, ma quando tentano di sfidare in modo prometeico la divinità e alzano la torre di Babele, come i nostri grattacieli che si alzano verso il cielo, Dio li punisce e rende impossibile agli uomini di comunicare tra di loro. Ma c’è e resta un principio d’umanità, siamo tutti uomini e apparteniamo a questa stessa categoria più ampia.
Il mito greco invece è un mito esclusivo, sono i primi razzisti, sono loro che inventano il mito del barbaro, da bàrbaros, balbuziente, a indicare con disprezzo coloro che non riescono a pronunciare bene il greco. Esiodo ci dice che o appartieni a una Genòs, o sei come un sasso gettato dagli dei.  
Quello che conta è il radicamento all’interno di una stirpe che in altri tempi è diventa razza. Le radici oscure dell’Europa affondano nell’antichità, non nel XX secolo.
Il mito di Atlantide è certamente un mito fondativo, ma porta con sé lo stesso tema della “prometeicità”. Platone racconta che gli atlantidei avevano raggiunto delle immense capacità magiche, simili alla nostra tecnica, e quindi erano in grado di dominare e manipolare il mondo ma anche lì gli dei li hanno punito per la loro hybris, sommergendo tutta la loro terra.
Restiamo osservatori partecipi di queste dinamiche e sospendiamo il giudizio.

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