Un attacco all’Iran sarebbe un atto di criminale stupidità

mar 16, 2012 0 comments

Di  Seumas Milne
Dopo un decennio di disastrose guerre occidentali in Medio Oriente, segnali sempre più inquietanti indicano che ci stiamo dirigendo verso un altro conflitto. E, per quanto sia difficile crederlo, gli stessi screditati argomenti utilizzati per giustificare i disastri in Iraq e in Afghanistan – dalle armi di distruzione di massa alla sponsorizzazione del terrorismo, ai fanatici fondamentalisti – vengono ora utilizzati per giustificare un attacco all’Iran.
I discorsi di guerra a proposito dell’Iran e del suo programma nucleare sono andati avanti per così tanto tempo che si potrebbe essere tentati di liquidarli come una spacconata. I contrastanti messaggi sull’Iran che sono giunti dal governo americano e da quello israeliano nelle ultime settimane sono diventati sempre più contraddittori e sconcertanti.
Forse è tutta una questione di bluff e di guerra psicologica. Forse l’offerta iraniana di nuovi negoziati potrebbe portare a una svolta. Ma i toni di fondo sono diventati più minacciosi.
Il segretario alla difesa americano Leon Panetta ha fatto sapere c’è una “forte probabilità” che Israele attaccherà l’Iran tra aprile e giugno, anche se Barack Obama dice che nessuna decisione da parte israeliana è stata ancora presa. Alcuni funzionari americani hanno recentemente dichiarato al Guardian di ritenere che all’amministrazione USA non rimanga “altra alternativa” che attaccare l’Iran o lasciare che lo faccia Israele entro la fine dell’anno.
Nel frattempo, un’invisibile guerra israelo-americana è già stata scatenata sul terreno, comprendendo omicidi mirati di scienziati iraniani, una guerra informatica e attacchi a installazioni militari e missilistiche. E Gran Bretagna e Francia hanno con successo irreggimentato l’UE verso un’escalation di sanzioni economiche contro le esportazioni petrolifere iraniane – la linfa vitale del paese – mentre le forze militari occidentali continuano ad ammassarsi nel Golfo.
Ciascuna di queste azioni potrebbe facilmente essere considerata come un atto di guerra contro l’Iran – e un’eventuale rappresaglia iraniana potrebbe essere utilizzata come pretesto per un attacco militare diretto, mentre il rischio di escalation cresce. Ma invece di mettere in discussione quello che in effetti è un percorso estremamente pericoloso verso un conflitto regionale su vasta scala – con o senza un intervento occidentale nel paese alleato dell’Iran, la Siria – la classe politica dell’Occidente, e la maggior parte dei suoi media, sembrano impegnati ad “ammorbidire” l’opinione pubblica ed a farle considerare un’eventuale nuova guerra come una sfortunata conseguenza dell’intransigenza iraniana.
Quando è stato riferito che alcuni funzionari britannici si aspettavano che il governo Cameron avrebbe preso parte a un attacco statunitense contro l’Iran , la notizia ha suscitato appena un mormorio. In un dibattito parlamentare la scorsa settimana, vi sono stati solo sei voti  favorevoli a ritirare la minaccia di un attacco contro l’Iran. Il Times ha affermato, alcuni giorni fa, che sarebbe “fuor di dubbio” che l’Iran “sta cercando di sviluppare un’arma nucleare”, anche se né gli USA né l’AIEA sono riusciti a dimostrare una cosa del genere.
E anche quando i leader americani e britannici hanno chiesto moderazione a Israele, come hanno fatto nei giorni scorsi il ministro degli esteri William Hague e il capo degli stati maggiori congiunti americani Martin Dempsey, si è trattato solo di una questione di “scelta di tempo”. La forza militare, hanno detto, sarebbe “prematura” e imprudente “in questo momento”.
Se Israele o gli Stati Uniti dovessero lanciare un attacco, non sarebbe solo un atto di criminale aggressione, ma anche di ingiustificata e distruttiva stupidità. Come sottolinea Michael Clarke, direttore del Royal United Services Institute della difesa britannica, un attacco del genere sarebbe del tutto illegale: “Non c’è alcun fondamento nel diritto internazionale per la guerra preventiva”.
Esso garantirebbe inoltre lo scoppio di una conflagrazione regionale con conseguenze globali incontrollabili. L’Iran potrebbe compiere azioni di rappresaglia contro Israele, gli Stati Uniti e i suoi alleati, sia direttamente che indirettamente, e bloccare un quinto delle forniture petrolifere internazionali, che passano attraverso lo Stretto di Hormuz. La scia di morte, distruzione e caos economico sarebbe impressionante.
Ma mentre nel caso dell’Iraq fu lanciato un attacco a causa di armi di distruzione di massa che in realtà non esistevano, in questo caso gli Stati Uniti non stanno nemmeno sostenendo che l’Iran stia tentando di costruire una bomba atomica. “Stanno cercando di sviluppare un’arma nucleare? No”,ha detto Panetta senza mezzi termini il mese scorso. Si dice che i servizi segreti israeliani siano della stessa opinione. A differenza dello stesso Israele, che possiede armi nucleari da decenni, essi ritengono che la leadership iraniana non abbia preso alcuna decisione di sviluppare un arsenale nucleare.
La questione, invece, è se l’Iran – che ha sempre insistito sul fatto che non vuole possedere armi nucleari – possa sviluppare la semplice capacità di costruirle. Dunque l’Iran – circondato da basi militari e truppe di occupazione americane, da Stati dotati di armi nucleari (da Israele al Pakistan) e dalle autocrazie del Golfo che chiedono agli americani di “tagliare la testa del serpente” iraniano – viene minacciato di essere il possibile bersaglio di un attacco militare a causa di un futuro ‘potenziale bellico’ che gli Stati aggressori hanno da tempo trasformato in realtà.
La semplice capacità di costruire armi nucleari non costituirebbe la “minaccia esistenziale” tanto sbandierata dai politici israeliani. Potrebbe, ovviamente, smussare il vantaggio strategico di Israele. Oppure, come ha messo in chiaro di recente Matthew Kroenig, consigliere speciale del segretario alla difesa USA fino all’estate scorsa, un Iran nucleare “limiterebbe immediatamente la libertà d’azione degli Stati Uniti in Medio Oriente”. Questo ci porta al cuore della questione: la libertà d’azione in Medio Oriente è una prerogativa degli Stati Uniti e dei suoi alleati, non di Stati mediorientali indipendenti.
Ma se le potenze occidentali e Israele sono davvero preoccupate per la minaccia di una corsa agli armamenti nucleari nella regione, esse potrebbero gettare tutto il proprio peso politico in negoziati per ottenere la denuclearizzazione del Medio Oriente – a cui la maggior parte degli israeliani sono favorevoli.
Ciò che è evidente, come riconoscono funzionari sia statunitensi che israeliani, è che né le sanzioni né la guerra probabilmente riusciranno a distogliere l’Iran dal suo programma nucleare. Un attacco militare può rallentare tale programma – insieme alle prospettive di cambiamento in senso progressista in Iran – ma allo stesso tempo costituirebbe per i leader iraniani il più forte incentivo a prendere quella decisione che non hanno ancora preso, e a costruire armi nucleari.
Obama ha tutto l’interesse a impedire un attacco israeliano contro l’Iran – che trascinerebbe gli Stati Uniti nel conflitto – almeno fino a dopo le elezioni presidenziali. Ma, con l’aumentare delle minacce di guerra, delle sanzioni paralizzanti e degli attacchi sotto copertura, aumentano anche i rischi di cadere in una guerra accidentale. Un confronto militare nello Stretto di Hormuz nei prossimi due o tre mesi è ora “molto probabile”, ritiene Clarke: “La politica occidentale nei confronti dell’Iran è come una collisione al rallentatore”.
C’è un altro fattore che spinge verso la guerra. Quanto più parlano della presunta minaccia derivante dal programma nucleare iraniano e dell’opzione militare, tanto più i leader statunitensi ed israeliani rischiano di compromettere la propria credibilità se dovessero finire per non far nulla. Un attacco potenzialmente catastrofico non è inevitabile, ma sta pericolosamente diventando sempre più probabile.
Seumas Milne è condirettore del Guardian; per questo giornale è stato corrispondente dal Medio Oriente, dalla Russia, dall’Asia meridionale e dall’America Latina; in precedenza ha lavorato per l’Economist
(Traduzione di Roberto Iannuzzi)


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