Il lavoro non è un gioco (ma dovrebbe esserlo)

mag 9, 2013 0 comments

Di Marta Coccoluto

Dopo l’estenuante e direi poco proficua caccia all’individuazione del provvidenziale e salvifico “volano”, che avrebbe dovuto dare slancio a economia e lavoro, il mantra degli ultimi tempi sembra essere diventato “è necessario inventarsi un lavoro”.

Sì, ma come? Da dove si parte? Un punto di partenza per individuare una nuova strada professionale potrebbe essere quello di concentrare l’attenzione su una attività che sia in grado di farci spostare il concetto di lavoro inteso come ‘fatica’, come ‘obbligato e privo di scelta’, come ‘non divertente’, al lavoro come un qualcosa che non solo sia piacevole, ma a tratti quasi divertente, che non sia fatica, che non sia un obbligo ma una scelta. Insomma, quasi come un gioco.

Più o meno questo è il concetto chiave sostenuto da Peter Gray, professore e ricercatore di Psicologia presso il Boston College, nel suo libro “Free to Learn”.

Gray guarda alle tribù di cacciatori-raccoglitori superstiti come a un esempio: il lavoro per loro non è fatica, ma è l’estensione delle attività di gioco, svolte fin da bambini per imparare tutte quelle attività, dalla caccia alla costruzione delle capanne, dalla creazione degli utensili alla preparazione dei pasti, dalla cura dei bambini al parto e alla guarigione, che servono alla comunità per vivere, nutrirsi, produrre.

Con la crescita il gioco si perfeziona e abilità, attitudine e capacità personali lo traghettano nell’età adulta, trasformandolo in una attività produttiva, senza però che questa perda quel lato giocoso che permette di non percepirla come una fatica.

Il lavoro è vario e richiede molta abilità, conoscenza e intelligenza: mettersi alla prova è una sfida positiva. E’ giocoso perché è fatto in un contesto sociale, con gli amici: la gran parte del lavoro è fatto in modo cooperativo e anche il lavoro individuale è svolto in contesti sociali, con gli altri intorno. Il lavoro ha anche un riconoscimento sociale condiviso.

Nell’ovvia impossibilità di trasformarci tutti in cacciatori-raccoglitori e nella forse vana speranza di un deciso e improvviso cambio di rotta verso la costruzione di un sistema sociale ed economico fondato sui principi di condivisione, di autonomia individuale e di uguaglianza, non resta forse che riflettere su questa teoria e cercare di applicarne il senso più profondo al nostro contesto.

Oggi dobbiamo necessariamente reinventare, riprogettare e re-immaginare noi stessi e il nostro lavoro molte volte nella vita, non ci sono molte alternative. Molti nomadi digitali hanno già dimostrato che è possibile riuscirci, anche con successo.

Davanti a una situazione di crisi profonda e oggettiva, per “inventarci un lavoro” non possiamo che puntare su noi stessi, su idee piccole ma efficaci, guardando a ciò che ci piace fare, a ciò che stimola la nostra curiosità, il nostro talento, a ciò che ci dà l’idea di giocare.

Tony Wagner ha recentemente detto in una intervista che le “nostre conoscenze” contano molto meno di quello “che si può fare” con le stesse conoscenze, soprattutto perché oggi grazie a Internet la conoscenza è accessibile e disponibile a tutti.

Di gran lunga più importanti della conoscenza accademica, del “pezzo di carta”, come si dice qui in Italia, sono la capacità di innovare, ovvero la capacità di risolvere problemi in modo creativo o di creare alternative di vita e di lavoro, e abilità importanti, come il pensiero critico, la comunicazione e la collaborazione.

E’ forse proprio su questo che dobbiamo puntare oggi per metterci in gioco e trasformare il lavoro in qualcosa di divertente che amiamo e che dipende da una nostra scelta, che magari ci affatica anche ma è comunque portatore di valori positivi nella nostra vita.

Fonte:http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/09/lavoro-non-e-gioco-ma-dovrebbe-esserlo/588479/

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