Il sodalizio tra lo scienziato e padre dell'LSD Albert Hofmann e il filosofo Ernst Jünger

lug 23, 2015 0 comments
Hofmann e Jünger, http://www.alberthofmannundseinlsd.ch

Di Federico Battistutta

“Eravamo entrambi Waldgänger, sia nel significato letterale che in quello figurato del termine. Abbiamo preferito il bosco alla città” Albert Hofmann 


. Correva l’anno 1968: fra i tanti accadimenti che a quell’epoca non attirarono particolare attenzione di pubblico vi è uno scritto di Ernst Jünger dedicato a Mircea Eliade, composto in occasione del sessantesimo compleanno dello storico delle religioni (fra i due intercorreva reciproca stima)[1]. Lo scritto passò appunto sottotono.






L’anno successivo lo scrittore tedesco rimise mano a quel testo con l’intenzione di ampliare a approfondire i temi trattati. Prende corpo così uno fra i più insoliti libri nella vasta produzione jüngeriana, che verrà dato alle stampe l’anno successivo. Si tratta di Avvicinamenti[2]. L’interesse di questo libro non è dettato tanto dall’argomento (i vari stati di alterazione prodotti dalle droghe), in quanto sono da tempo consultabili numerose pubblicazioni in materia, sia specialistiche che divulgative, in grado di soddisfare la curiosità teorica o pratica del lettore. Non si intende neppure insistere sulla perizia descrittiva dell’autore (ampiamente rinvenibile anche in altre opere). E’ il come ad interessare. Le droghe sono qui lo sfondo - ampio e variegato quanto si desidera - su cui campeggia in primo piano altra figura. Detto altrimenti: le droghe costituiscono per Jünger un ingrediente – determinante fin che si vuole – all’interno di un itinerario più ampio e quanto mai complesso, riguardante un continuo e ripetuto lavoro di avvicinamento. Non pasticciamo, anche qui, sovrapponendo mezzi e fini: quello che è in gioco e conta è il processo di avvicinamento. Ma: avvicinamento a che? “Quando il cordone ombelicale viene tagliato, con una lama o con i denti, e il neonato respira per la prima volta, avviene un Grande Passaggio, connesso all’apertura di piste di esplorazione. Quando il moribondo smette di respirare, deve anch’egli, con una preparazione più o meno importante, affrontare un Grande Passaggio” (p. 46). Il cammino di avvicinamento è il cammino della e nella vita compreso tra il primo e l’ultimo respiro. Ma affinché si dia progressivo avvicinamento è necessario oltrepassare ciò che costituisce ostacolo e impedimento, occorre compiere con coerenza “la lacerazione del velo intessuto dai sensi” (p. 48), smontando così il sistema di rappresentazioni ad esso collegato. E’ a questo punto che interviene la ricerca di quelle sostanze che possono facilitare, lungo il cammino, l’opera di svelamento, mostrando al cercatore solitario la natura inconsistente del velo. E’ il campo dell’esperienza eccessiva come esperienza del limite estremo, personale e sociale: si tratta di excedere, di ‘andare fuori’: “Excedo, vado fuori, mi allontano, tanto dai miei propri confini quanto dal recinto sociale. Excessus è lo sconfinamento. A questo si lega la minaccia, prima o poi, dell’exclusio, dell’esclusione” (p. 188). A ben vedere è questo un tema che ricorre nella produzione di Jünger. Da questa prospettiva, Avvicinamenti costituisce una declinazione, tutta particolare, intorno al tema del Ribelle, di colui che, varcando con le proprie forze il ‘meridiano zero’, compie il ‘passaggio al bosco’, sottraendosi agli imperativi dell’ordine costituito. (Il termine tedesco adoperato per ‘ribelle’ indica propriamente colui che si ritrae nella foresta per darsi alla macchia; si tratta di un’espressione risalente a un’usanza praticata in Islanda, dove i proscritti si ritiravano in luoghi selvaggi, dove conducevano un’esistenza libera ma al tempo stesso pericolosa). “L’uomo tende a rimettersi agli apparati e a far loro posto anche quando dovrebbe attingere alle proprie intime risorse”: così si legge nel Trattato del Ribelle[3]. L’avventura jüngeriana nel mondo delle sostanze stupefacenti altro non è che un affidare alla ricerca e alla decisione personale anche la determinazione di ciò che convenzionalmente viene considerato, più di ogni altra cosa, mero dato da fatto: la realtà, la res, la cosa, appunto. Il medesimo vaglio critico con cui Jünger ha già sottoposto nel Trattato il sapere medico, quello giuridico, politico e morale, viene ora ripreso e, se possibile, reso più acuto, investendo un’infinita serie di posizioni e presupposizioni appartenenti al common sense, a cominciare dalla valutazione se l’autorizzazione ad accedere ai dispositivi chimici della coscienza sia prerogativa esclusiva degli organi di governo o non appartenga invece alla sfera più profonda della persona, a quella decisione radicale che restituisce senso al proprio essere al mondo. L’avvicinamento è opera complessa (anche pericolosa – avverte Jünger), è un’apertura a un senso più ampio, radicato nelle viscere stesse della realtà, un senso capace di gettare sprazzi di luce sui tanti significati contingenti che attribuiamo alle cose e alla loro multiforme consistenza. Per quanto si abbia la percezione tangibile di progredire, questo avvicinamento non ha termine, come non vi è neppure primogenitura, il primo passo vale l’ultimo: “La caratteristica dei grandi problemi è di essere insolubili. Il loro valore sta nell’incessante interrogazione che invano chiede una risposta, e nell’incolmabile irrequietezza” (p. 244). Fino a quando?, si domanda il viandante nei momenti di stanchezza, guardando il cammino percorso. “Fintanto che non riusciremo ad aprire l’ultima camera, non saremo padroni di casa” (p. 347). L’addentrarsi e gli avvicinamenti da parte di Jünger nel mondo della droga e dell’ebbrezza vanno allora annoverati in quell’insieme di esperienze che dimorano per forza di cose nei territori poco battuti del disordinato e dell’indifferenziato, definiti dallo stesso Jünger ‘la terra selvaggia’ (die Wildnis), il luogo primordiale contrapposto all’ordine come unica regola, tratto ambiguo e distintivo del nichilismo dominante nella società contemporanea.[4] 2. Sarebbe oltremodo limitativo leggere queste riflessioni di Jünger come il prodotto di uno studio distaccato e oggettivo. Ne andrebbe persa una parte consistente, la più luminosa. Ben più proficuo è provare a comprenderle coniugandole strettamente all’esperienza dello stesso autore. Prendiamo a mo’ d’esempio le pagine d’esordio. Ecco di seguito una lunga citazione: “a partire da una certa età, all’incirca dall’età della pensione, non dovrebbero più esserci limitazioni – giacchè, per colui che si avvicina all’illimitato, dovrebbero esserci confini vasti. (…) E’ naturale che al sofferente, il cui orologio sta rapidamente esaurendo la carica, sia attenuato il dolore; ma non è sufficiente. Dovremmo portare ancora una volta presso il suo letto solitario la pienezza del mondo. L’ora della morte richiede, più che narcotici, doni che estendano e affinino la coscienza” (p. 8). Quando scriveva quelle righe Jünger aveva passato da un po’ i settant’anni, pertanto non ci pare un’associazione impropria riferire direttamente le frasi, poste proprio all’inizio di questo denso volume, alla vita e all’esperienza dell’autore. E’ Jünger, in primis, a compiere progetti d’infinito, a ricercare doni in grado di estendere e affinare la coscienza. E’ a partire dall’approssimarsi ormai a un’età patriarcale, è da una considerazione dunque vissuta nella carne che Jünger elabora le tracce di una personalissima fenomenologia (vissuta, anch’essa; tutt’altro che un’asettica disamina) degli stati alterati di coscienza. Aveva visto bene Chatwin, quando nel corso di un incontro con Jünger, riprendendo le parole dello scrittore tedesco, diceva che egli “riconosceva che ogni teoria è anche l’autobiografia del teorico”.[5] Ancora. Sfogliando l’indice di Avvicinamenti il lettore, gettando un primo colpo d’occhio, resta disorientato. Chi si attendeva che il libro contenesse una sorta di catalogo delle droghe, classificate in base alla composizione chimica o agli effetti sulla psiche, resta deluso e in certi frangenti viene anche ingannato dall’autore. Ad esempio, l’ultimo capitolo del libro s’intitola “Messico” ed è in questa sezione che Jünger tratta della sua esperienza con l’Lsd, ben sapendo che tale sostanza viene ricavata da una pianta europea (la segala cornuta), la quale è stata sintetizzata la prima volta in un laboratorio svizzero. Altri sono i criteri, tutti soggettivi ma mai arbitrari, che hanno orientato l’autore nell’elaborazione del tema. Ecco un altro esempio della particolare procedura jüngeriana: nella sua lunga riflessione non distingue tra sostanze inebrianti legali, quali il tabacco e l’alcool, da sostanze il cui consumo è da considerare in termini di legge illecito, anzi proprio delle prime comincia a trattare nel libro, se non altro perché ha modo così di parlare di qualcosa noto ai più e da lì dipanare il lungo e tutt’altro che semplice filo del discorso. 3. E’ indubbiamente vero che una parte consistente del libro è costituito da resoconti di esperienze con sostanze inebrianti. Troviamo narrate le giovanili sbornie di birra all’interno dei circoli ginnasiali, le avventure con l’etere, la cocaina, l’oppio, l’hashish, sino alla più recente conoscenza degli allucinogeni. Ma per un lettore appassionato quale fu Jünger non poteva mancare in quest’opera una ricognizione intorno ad autori che si sono occupati di droghe. Si tratta per lo più di autori cari a Jünger, letti e visti all’interno dei luoghi in cui hanno vissuto e che hanno descritto. Come E. A. Poe, vagabondo scrittore delle città statunitensi, in cui “la macchina non appare più nella sua potenza economica, bensì in quella demoniaca. Il nemico dell’artista, anzi dell’uomo, è il movimento meccanico” (p. 99). E poi De Quincey che fugge disperato a Londra, raccontando i sobborghi sinistri della città deformati dalle visioni dell’oppio; i paradis artificiels nella Parigi di Baudelaire; “il viaggio nelle altezze dell’etere” da parte di Maupassant; e così via. C’è anche il giovane Rimbaud: “ancor oggi lo ritengo uno dei padri della chiesa della modernità” (p. 166), sottolinea Jünger; ma, nonostante una dichiarazione del genere, si tratta poco più di un cenno. Non vi è menzione del programma contenuto nella celebre ‘lettera del veggente’, con l’invito a un “immense et raisonné dérèglement de tous les sens”, che lo stesso Jünger avrebbe probabilmente sottoscritto; così come non c’è menzione dei vari componimenti poetici sull’argomento: dal poète de sept ans che “per avere delle visioni si schiacciava gli occhi”, come alle successive prose poetiche contenute nella Saison en enfer e nelle Illuminations.[6] Ma non frequentiamo solo il mondo dei poeti e degli scrittori scorrendo Avvicinamenti, così come non leggiamo solo resoconti di esperienze personali riferite dall’autore, con il distacco che gli anni talvolta concedono. Il libro è per così dire stratificato. Jünger compie incursioni nel campo della linguistica, indagando l’etimologia di alcune parole-chiave, come ‘droga’ ed ‘ebbrezza’. In altri punti attinge al repertorio mitologico; vi è, ad esempio, una lunga digressione riguardante le leggende e gli dèi germanici all’interno dei capitoli dedicati al consumo smodato della birra nell’Europa settentrionale, confrontata alla nobiltà del vino che mal si adatta alla coazione a bere: “La quantità di liquido che scorre dai corni e dai boccali non dev’essere considerata casuale. E’ parte integrante dell’atto del bere. Con questo bere non si deve spegnere la sete, e in ogni caso non una sete comune” (p. 144). Ancora. In diversi punti della narrazione Jünger cita persone che hanno condiviso la sua ricerca nell’oltrepassamento delle porte della percezione. In molti casi sono amici di percorso. Per essere sinceri, a noi, questi nomi il più delle volte dicono poco. Fra tutti ne emerge però uno, non solo per la frequenza con cui ricorre, ma per il ruolo determinante che ebbe in molte di queste esperienze. Ci riferiamo ad Albert Hofmann. 4. Nato nel 1906 in Svizzera, Albert Hofmann si laureò in chimica all’università di Zurigo. In una recente conversazione, gettando uno sguardo retrospettivo al proprio percorso, definirà la chimica “una sorta di contemplazione della natura e della sua struttura elementare: essa non ci allontana dalla natura ma ci aiuta a capirne le meraviglie. Ciò che mi spinse a diventare chimico fu un interesse puramente contemplativo, il desiderio di osservare e capire la natura, specialmente il mondo delle piante”.[7] Dal 1929 al 1971, anno del pensionamento, lavora presso i laboratori della società farmaceutica Sandoz a Basilea, svolgendo ricerche nel settore chimico-farmaceutico. Nel corso dei suoi studi sugli effetti cardioattivi delle piante officinali, inizia a lavorare su un fungo inferiore che cresce sulle spighe della segale e su altri cereali, finché nel 1938 riesce a sintetizzare la dietilamide dell’acido lisergico: la sigla Lsd non è altro che l’acronimo tedesco di questa sostanza (lysergsäurediäthylamid). Ma la sostanza non rivela di possedere qualità cardiotoniche e la ricerca viene archiviata. Nel 1943 Hofmann riprende il lavoro su questa sostanza. Casualmente finisce per assumere una dose infinitesimale del prodotto e ciò produce in lui un insolito stato di coscienza, caratterizzato da irrequietezza e dalla presenza di immagini caleidoscopiche assai vivaci. Allora prende la decisione di sperimentare nuovamente su se stesso l’Lsd, sottovalutandone però la potenza. Si verifica un indicibile horror trip. Inizialmente è solo un leggero stordimento, seguito da alcuni disturbi visivi e riso incontrollabile. Hofmann decide di rientrare a casa, accompagnato da un assistente. Ecco una parte della descrizione fornita da Hofmann e riportata dagli “Archives suisses de neurologie” (1947): “stordimento, distorsioni della vista (i volti degli astanti somigliavano a delle maschere dipinte in forme grottesche), viva agitazione alternata con paresi, freddo, intorpidimento, a intermittenza, della testa, del corpo e delle estremità; sensazione metallica in bocca; gola secca; sensazione di soffocamento; valutazione a tratti chiara, a tratti confusa della situazione, a volte adottavo verso me stesso un atteggiamento da osservatore e mi ascoltavo mormorare parole incomprensibili o urlare come un pazzo”. E ancora: “Tutto mi sembrava ondulare e le proporzioni degli oggetti erano deformate, come riflessi su un’acqua agitata. Tutto prendeva una tinta sgradevole con predominanze del blu e del verdastro. Quando chiudevo gli occhi ero assalito da immagini fantastiche, cangianti e multicolori. Il fenomeno più rimarchevole era che i suoni si trasformavano in sensazioni visive, cosicché ogni rumore suscitava un’immagine colorata che gli corrispondeva e che si trasformava come un caleidoscopio.” Trascorsa una notte di riposo, Hofmann si risveglia stanco, ma del tutto normale. Senza essere stata annunciata era iniziata in maniera turbolenta l’era psichedelica (l’aggettivo vuole indicare “che manifesta la psiche”, “che dilata la coscienza”; da psyché ‘anima, psiche’ e delóun ‘mostrare, manifestare’), che tanto avrebbe fatto parlare di sé negli anni Sessanta e Settanta. Superato l’iniziale turbamento Hofmann, comprende di avere scoperto una sostanza potente, che poteva avere diverse applicazioni nell’indagare i meandri della psiche umana; aveva portato alla luce qualcosa di nuovo, che a dosi infinitesimali produceva effetti particolarmente intensi, non commisurabili alle sostanze psicotrope allora note. Non a caso il primo campo di applicazione fu quello psichiatrico e psicoterapeutico, poiché si riteneva che favorisse lo sviluppo del potenziale introspettivo, facilitando in taluni casi la riemersione di contenuti psichici rimossi. L’Lsd venne utilizzato, sempre in via sperimentale, negli ambiti più disparati: come analgesico nella terapia per i malati terminali, come facilitatore dell’eccitazione erotica, nonché come arma non convenzionale da parte della CIA.

FONTE E ARTICOLO COMPLETO:http://www.liberospirito.org/Testi/Stati%20modificati/Federico%20Battistutta%20-%20Il%20sodalizio.pdf

http://psiconautica.in/index.php/sostanze/3-rivoluzione-psichedelica/2536-il-sodalizio-tra-ernst-juenger-e-albert-hofmann

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