Attentato in Turchia. Rischi e contraddizioni di una deriva autoritaria

ott 12, 2015 0 comments



Di Michela Mercuri

L'attentato alla stazione di Ankara, uno dei più drammatici della storia recente turca - con i suoi 100 e più morti - è un evento che, al di là della sua oggettiva gravità, si presta a molte considerazioni sul futuro del Paese e, in più ampia prospettiva, sugli equilibri dello scacchiere geopolitico mediorientale in cui la Turchia ha svolto, fin dai tempi dell'impero ottomano, un ruolo primario di player regionale e in cui oggi, anche alla luce della crisi in Siria e in Iraq, è destinata ancora una volta a dettare le regole.




Parlare della Turchia vuole dire in primo luogo parlare di colui che da più di 13 anni ne è il leader indiscusso, il "sultano" Recep Tayyip Erdogan e delle mille contraddizioni di un uomo politico e della sua svolta autoritaria che nel giro di 13 anni ha fatto sì che la Turchia passasse dal ruolo di "fianco sud della Nato" a quello di vera e propria mina impazzita del Medio Oriente.
Una svolta autoritaria, quella di Erdogan, che segna il suo momento cruciale nel 2013, anno delle rivolte di Gezi Park e le cui implicazioni, sia sul piano interno che regionale e internazionale, sono cruciali per comprendere non solo il futuro di un Paese che si sta avvicinando, tra rivolte e sangue, ad una tornata elettorale decisiva ma anche, e più in generale, il futuro della regione mediorientale, mai come in questo momento teatro di sanguinosi e irrisolti conflitti dalla Siria ai Territori occupati, passando per l'Iraq.
Dal punto di vista interno, le conseguenze della svolta autoritaria di Erdogan sono state evidenti fin dai fatti di piazza Taksim, quando il sogno infranto di migliaia di giovani ha rivelato al mondo il vero volto di un paese ben lontano dall'immagine dell'isola felice ostentata per più di 10 anni dal presidente e dal suo entourage. Da allora la Turchia del sultano ha sempre più virato verso la deriva di una dittatura islamica. Arresti di massa di giornalisti e intellettuali, costanti violazioni delle più elementari regole democratiche, limitazioni arbitrarie alla libertà di stampa, hanno mostrato il "volto nuovo di Ankara". In questo clima di terrore il partito curdo Hdp di Selahattin Demirtas ha raggiunto, nelle elezioni dello scorso giugno, il 13% delle preferenze, superando l'alta soglia di sbarramento del 10% e mettendo in crisi il disegno imperialista del sultano. Erdogan sperava forse che tutto il sangue e le violazioni di Gezi Park non avrebbero avuto conseguenze? È possibile.
E, d'altra parte, è tipico di ogni leader maximo credere in maniera miope al mito della propria invincibilità (solo nell'area mediterranea ce lo hanno insegnato Gheddafi, Mubarak e Ben Ali). Fatto sta che Demirtas un quarantaduenne avvocato curdo, un grande oratore, promotore di un linguaggio nuovo vicino a quello dei giovani di piazza Taksim, e che ha basato la sua campagna elettorale, tra le altre cose, su una dialettica di totale opposizione al governo in carica, ha fatto un vero e proprio sgambetto all'ineffabile ex primo ministro. Allora si parlò di un possibile governo di coalizione ma, in realtà, il successo del partito filo-curdo è stato solo l'anticamera per le elezioni anticipate del prossimo novembre. Oggi, a meno di 20 giorni dal voto, si ripete lo stesso copione di "lacrime e sangue": più aumentano le critiche più aumenta la censura ed Erdogan diventa sempre più autoritario e monocolore.
Sono decine i giornalisti arrestati, non da ultimo Bulent Kenes, direttore dell'edizione inglese del quotidiano turco Zaman, che ha pagato i 140 caratteri del suo tweet con un mandato d'arresto. Quello di Kenes segue solo di pochi mesi l'ergastolo chiesto per il direttore del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, Can Dundar, minacciato dopo la pubblicazione delle immagini di armi destinate a jihadisti in Siria a bordo di camion scortati dai servizi segreti turchi del M.T.I.
Ed arriviamo così alla politica anti-curda, altro nodo critico del "new deal" di Erdogan che, oggi più che mai, si riflette nei drammatici focolai di conflitto che interessano il quadrante mediorientale ed in particolare il dilaniato teatro siriano, in cui la politica di Ankara è stata fin dai primi tempi a dir poco ambigua, soprattutto per quel che riguarda i rapporti con il Califfato islamico. Qui la politica estera turca si è mossa - ad usare un eufemismo- con una certa fumosità, tra la necessità di rispondere agli appelli della comunità internazionale ad assumere una chiara posizione contro i boia dello Stato islamico e lo spettro della possibile formazione di uno Stato curdo tra Turchia, Siria e Iraq.
È per questo motivo che il presidente turco ha negato ogni supporto ai ribelli curdi anti-Assad. Come dimenticare quando, durante i tragici giorni dell'assedio di Kobane da parte delle milizie dello Stato islamico, pur di non portare acqua al mulino del suo nemico, Erdogan ordinò alle forze armate turche di non entrare in azione a sostegno dei peshmerga curdi, nonostante a pochi chilometri di distanza dai confini turchi si stesse consumando una vera e propria mattanza?
È solo la punta di un iceberg della politica anti-curda e che oggi è ancora più accentuata dall'accresciuto carattere nazionalistico della politica turca. Non è un segreto che Erdogan sia sempre più vicino all'MHP dei lupi grigi e dunque alla destra nazionalistica radicale, anche in previsione di un inasprimento del fronte comune contro i curdi che premono, dalla Siria, sui confini della Turchia rafforzando la loro presenza nella regione del Rojava.
Infine, la svolta autoritaria di Erdogan si riflette, inevitabilmente, anche sullo scenario internazionale. Anche qui il leader di Ankara, che per anni si era fregiato di dare del "suo" paese l'immagine di una "felice eccezione" nel prisma comparativo, spesso piuttosto fallimentare, delle primavere arabe e che aveva fatto del "modello turco" un riferimento osannato da molti vicini regionali - ma anche dai principali player internazionali - ha svelato il suo vero volto. Il modello turco che sembrava, o si sforzava di sembrare, la perfetta unione del rispetto delle prassi democratiche con i principi dell'Islam, capace di dialogare con i vicini regionali attraverso la realpolitik della profondità strategica e dello "zero problemi con i vicini" del suo ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu e capace al contempo di tenere aperta (seppure con qualche difficoltà) la porta europea, oggi appare solo un miraggio che si infrange contro una politica estera a dir poco "isterica" fatta di relazioni internazionali tese ed altalenanti con tutti gli attori internazionali.
E così Erdogan prima minaccia i russi per l'invasione del proprio spazio aereo da parte dei caccia di Mosca e chiede aiuto alla Nato, poi stringe una mano alla politica americana in Siria mentre con l'altra bombarda i ribelli curdi che combattono contro lo Stato islamico. Nel frattempo guarda con sfida sia Teheran e Bagdad, per evitare che si creino le condizioni per un irredentismo curdo (che potrebbe coinvolgere oltre alla Turchia, la Siria, l'Iran e l'Iraq) sia l'Egitto del generale al-Sisi, mentre intrattiene rapporti a dir poco tesi con Israele.
Ecco, in poche parole, il leader che "si presenterà" alle elezioni turche del prossimo primo novembre. Un leader che, almeno per il momento, sembra aver perso il senso del limite, ma soprattutto il contatto con la gente - dote che in passato è stata la cifra della sua politica interna- ma soprattutto un leader che sta pagando con il sangue del proprio popolo "i rischi e le contraddizioni della sua deriva autoritaria".

FONTE:http://www.huffingtonpost.it/michela-mercuri/attentato-in-turchia-rischi-e-contraddizioni-di-una-deriva-autoritaria_b_8276344.html

FOTO:http://arabpress.eu

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