Sul vittimismo

gen 27, 2016 0 comments

Di Gianfranco Ravaglia

Il termine “vittimismo” è vago e spesso è utilizzato impropriamente e in senso offensivo e per questo cercherò di esplicitare quello che mi sembra l’uso più corretto di tale termine.
Le persone che amano dire “smettila di fare la vittima!” percepiscono che le persone vittimiste, a differenza delle semplici e reali vittime di qualche ingiustizia o sventura, sono attive in un processo di manipolazione; tuttavia mostrano di non capire o di non voler capire che la manipolazione vittimistica è inconscia e che i vittimisti guastano la propria vita e non solo quella degli altri. Inoltre, la svalutazione del vittimismo è a sua volta una difesa psicologica che consente di non sentire la solitudine che si prova con le persone vittimiste, completamente prese dalla propria rabbiosa autocommiserazione e fondamentalmente indifferenti agli altri.

Gli osservatori che svalutano i vittimisti individuando “dall’esterno” le loro manovre psicologiche rivolte ad altre persone, non capiscono che coloro i quali “si lasciano ingannare e sfruttare dai vittimisti” non sono “poveri ingenui”, ma stanno al gioco solo per sfruttare psicologicamente a loro volta la situazione (senza esserne consapevoli). E’ paradossale, ma proprio le persone che, dopo aver “subito” manovre vittimistiche, accusano le persone vittimiste di essere “ingrate”, stanno agendo vittimisticamente. Non riconoscono di aver ingoiato esca e amo solo per sentirsi indispensabili oppure nel caso dell’ingratitudine, per arrabbiarsi e per rivendicare il riconoscimento del loro “essere troppo buoni”.

Gli osservatori che invece “dall’esterno” tendono a solidarizzare con i vittimisti hanno poca confidenza con il dolore, dato che confondono l’espressione del dolore con l’esibizione del “dolore” vittimistico. Tendono a solidarizzare proprio perché sentono poco e perché mirano soprattutto a considerarsi e ad apparire “comprensivi” o “aperti”, mentre in realtà sono centrati sulla propria immagine.

Una cliente, che chiamerò Patrizia, “sfortunata in amore” e abituata a “confidare le proprie disgrazie” ad un’amica molto “disponibile” mi disse di essere arrabbiata perché l’amica in questione si era innamorata e “si era fatta di nebbia”. Il commento sprezzante che più mi colpì fu “Evidentemente prima mi ascoltava solo perché non aveva niente da fare”. Dunque, nessun dispiacere per la perdita di un rapporto prezioso e nessuna considerazione per l’amica, ma una netta svalutazione di tutta la relazione in seguito ad una frustrazione. Le chiesi i particolari e, senza notare la rilevanza della propria affermazione, mi disse che nell’ultimo incontro (anziché felicitarsi con l’amica per il suo nuovo rapporto sentimentale) le aveva detto “Ma perché le occasioni buone capitano sempre agli altri?!”.
GF. Come ha reagito alla tua esclamazione apparentemente interrogativa?
P. Non lo so. Non ha fatto commenti.
GF. Cosa ti proponevi di farle sentire?
P. Nulla, stavo solo esprimendo il mio senso di esasperazione per le cose che mi vanno storte.
GF. Ma cosa intendevi far provare a lei che finalmente era stata baciata dalla fortuna? In fondo, fra le mille frasi possibili hai scelto proprio quella.
P. Volevo solo che mi capisse.
GF. Cosa volevi che capisse facendo un confronto fra te e lei lei?
P. Aspetta! Stai dicendo che ho fatto un confronto?
GF. Tu mi hai informato del fatto. Non è una mia opinione. Se io avessi un tumore e con te mi “esprimessi” commentando “Ma perché il tumore è capitato a me e non a qualcun altro?!” avrei fatto un confronto con gli altri (tra cui Patrizia) che sono sani come dei pesciolini. E avrei provocato una risposta emotiva in te.
P. Non ho avuto tatto.
GF. Non è questione di tatto, ma di scopi. Cosa volevi che lei sentisse?
P. Non so. Però … io sento che a lei tutto va bene e a me tutto va male.
GF. E quale emozione provi facendo questa affermazione?
P. Ci soffro.
GF. La sofferenza è dolore e il dolore riguarda una mancanza accettata. Tu accetti di essere single?
P. Certo che no! Ho capito: stai pensando che sono arrabbiata?
GF. Lascia stare cosa sto pensando io: sei arrabbiata o no?
P. Non me ne passi una!
GF. Quante “te ne devo passare” in base ai nostri accordi?
P. OK, hai ragione, stai solo facendo quello che ti ho chiesto di fare, però sento fastidio quando fai così.
GF. Mi dispiace, ma sono scorretto con te?
P. No. Però … le cose sono troppo complicate.
GF. Più di come “dovrebbero essere”?
P. [Sorride: ha capito] E’ questo il punto, vero?
In quella seduta, Patrizia ha iniziato a capire che “non sta davvero” in questo mondo: non sente gioia per certe cose e dolore per altre (o in casi eccezionali rabbia per reali ingiustizie o ansia per reali incertezze). Non vive nel mondo reale e non si chiede se può migliorare la sua vita e come. Di fatto, vive in un mondo in cui le cose sono “a posto” e appena osserva questo mondo si indigna, perché lo squalifica come una copia errata e ingiusta di quello “vero”.

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Il vittimismo è una piaga diffusa che devasta persone, famiglie, gruppi sociali, ideologie, culture e popolazioni e solo per ignoranza e insensibilità viene minimizzato o ritenuto un vezzo di pochi rompiscatole o addirittura in molti casi viene giustificato. Il fatto che il vittimismo non sia al centro della cultura psicoterapeutica dipende dal fatto che la stessa psicoterapia si è costituita in parte proprio sulla cultura del vittimismo. Vari indirizzi psicoterapeutici trascurano completamente le difese psicologiche vittimistiche e nei casi peggiori favoriscono proprio “relazioni d’aiuto” finalizzate alla “accoglienza” della (pseudo)sofferenza esibita dai “pazienti” che dichiarano di “soffrire tanto” per colpa di genitori insensibili o dello “stress” o di altre cose. Mesi o anni dedicati ad accogliere, capire, accettare tali “dolori”, senza che i “pazienti” possano capire che si stanno intossicando di rabbia vittimistica nel presente, evitando di sentire ed elaborare il loro vero dolore e senza fare nulla di compassionevole e utile per sé e per gli altri.

L’indirizzo psicoterapeutico che ha trattato con la dovuta attenzione il vittimismo è l’Analisi Transazionale. L’approccio dell’AT chiarisce bene anche una cosa terribile: il ruolo vittimistico, quello del “salvatore” e quello del “persecutore” sono intercambiabili, nel senso che una persona può strutturare un rapporto secondo una modalità per poi passare all’altra. Il caso più semplice è quello in cui X lancia un messaggio vittimistico del tipo “Capitano tutte a me” e Y risponde (da salvatore) “Non ti preoccupare, ci sono io”. Alla fine X conclude (da persecutore) “Hai fatto solo il tuo dovere”. Y può, a questo punto replicare (da persecutore) “Le persone come te non meritano alcun aiuto”, oppure può replicare (da vittima) “Io aiuto tutti e poi mi becco sempre dei calci nei denti”. Tutte e tre le posizioni sono distruttive e implicano una svalutazione di sé e dell’altra persona. Nel mio linguaggio sono comunque atteggiamenti difensivi.
L’AT ha chiarito molto bene che noi cerchiamo “carezze” (cioè scambi interpersonali gratificanti), ma se nell’infanzia riceviamo dei rifiuti a volt ci organizziamo la vita accontentandoci di “carezze negative” (nella logica secondo cui “un calcio è meglio di niente!”) e sostituendo sentimenti autentici a sentimenti “parassiti”. Purtroppo l’AT ha, a mio parere, due limiti: a) non approfondisce la logica profonda che caratterizza tutte le modalità difensive e fa un elenco sterminato di schemi relazionali distruttivi (da smascherare per favorire un miglior contatto con la realtà) e b) non lavora abbastanza, a livello emozionale, sul dolore che le varie difese coprono in vari modi. In ogni caso, qualsiasi contributo è importante e quello dell’AT è davvero prezioso.
Anche l’analisi caratteriale di Wilhelm Reich aiuta a riconoscere la rabbia passiva con cui si coprono emozioni profonde e la psicoterapia della Gestalt aiuta ad identificare “parti” della persona non accettate e non manifestate.

Il punto nodale della questione del vittimismo sta comunque nel fatto che l’atteggiamento vittimistico non è espressivo ma difensivo. Con tale atteggiamento, quindi, le persone non esprimono sentimenti autentici, ma esprimono sentimenti irrazionali “costruiti” strumentalmente allo scopo di sentire “poco”.
La persona che è semplicemente vittima di una disgrazia e mantiene il contatto con tale realtà “data”, esprime dolore, non rabbia vittimistica; inoltre, se chiede aiuto non lo pretende e se lo riceve ringrazia di cuore. Ha in mente di migliorare la situazione e non di sfruttare psicologicamente ciò che è accaduto per fuggire da antiche sofferenze o per realizzare sogni dell’infanzia.
La persona vittimista, invece, non accetta alcun dolore, tende ad attribuire rabbiosamente ad altri delle colpe e quindi non piange, oppure “frigna”, non fa nulla per migliorare la propria situazione e se viene aiutata non prova gratitudine. Il vantaggio psicologico di questa operazione mentale assurda sta nell’interruzione del contatto con il dolore: la persona vittimista non sente e non esprime il proprio dolore perché focalizza l’attenzione su “qualcosa” che “deve andare a posto” o su qualcuno che deve “pentirsi e cambiare” o su qualcuno che deve intervenire, perché la realtà “non può essere quella che è”.
Se si aiuta una persona in difficoltà ci si aspetta un cenno di simpatia e di collaborazione, mentre se la persona che riceve aiuto è impegnata in una manovra vittimistica può fare commenti sgradevoli di questo tipo: “non avrei voluto disturbarti”, “non vorrei aver bisogno dell’aiuto di nessuno, ma purtroppo devo accettarlo” oppure “mi spiace che tu ti senta in obbligo di aiutarmi”, o addirittura “potevi anche darti da fare prima”.

L’idea che il vittimismo si riduca ad un atteggiamento lamentoso volto a provocare attenzione è riduttiva e semplicistica. Prima di tutto la ricerca di attenzioni non caratterizza solo il vittimismo perché è presente (con un ruolo marginale o centrale) anche in molti altri atteggiamenti difensivi (l’esibizione di attacchi di panico, la competitività, ecc.) e, in secondo luogo, il vittimismo costituisce una manovra molto complessa sul piano cognitivo ed emozionale il cui vero fine è la negazione dell’impotenza di fronte ad una situazione dolorosa. Il vero vantaggio del vittimismo è costituito da una fede cieca, assoluta, non confrontata con i fatti, relativa alla possibilità di un appagamento impossibile.
Cercherò di chiarire meglio questo obiettivo del vittimismo, ma prima voglio sottolineare che tale ottimismo dogmatico si appoggia ad un complesso insieme di convinzioni e stati d’animo attraverso i quali la realtà viene fraintesa e proprio per questo affrontata in modi irrazionali e distruttivi.
Il vittimismo è una della tante difese psicologiche con le quali nell’infanzia si evita di sentire l’impotenza di fronte ad un rifiuto. Difese con altre caratteristiche sono la negazione del bisogno (o contro-dipendenza) che consente di ammettere un rifiuto senza provare sofferenza (“mi escludono ma io non ho bisogno di stare con loro”), o la reinterpretazione del rifiuto come un dettaglio superabile (“mi rifiutano solo perché ho sbagliato, ma appena sarò più bravo mi accetteranno”), o altre ancora.
Il vittimismo è sempre presente nella struttura caratteriale masochistica, ma si presenta anche in altre strutture caratteriali, così come una certa arma può essere utilizzata da eserciti diversi.

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L’idea della presunta “non responsabilità” delle persone vittimiste è collegata all’idea della prevaricazione. Nello schema vittimistico un soggetto impotente subisce la potenza (ingiusta) altrui. Tale nucleo è un imbroglio perché trasferisce su persone libere la prevaricazione che può essere subita solo dalle vittime reali che realmente non sono libere.
Se un bambino viene svalutato perché non studia abbastanza, è realmente vittima di un ricatto affettivo, sia che diventi molto diligente, sia che resti inconcludente sentendosi cattivo, sia che resti inconcludente facendo il ribelle arrogante. Infatti, non può né combattere su un piano d parità con i genitori né andarsene; anzi non può nemmeno immaginare queste due eventualità. Anche un adulto che riceve una botta i testa e viene rapinato è vittima di una rapina poiché, essendo svenuto, non può affrontare il rapinatore. Se invece una persona adulta convive con un/una partner che la tratta come uno zerbino non è vittima di un maltrattamento, ma ha qualche motivo, probabilmente non conscio, per scegliere di restare in quel rapporto. Può dire che “non riesce a liberarsi” perché è “debole di carattere” o perché è molto “innamorata” o perché spera che le cose migliorino, ma mente anche se non è consapevole di mentire: ha le chiavi di casa e le porte si aprono per entrare ed anche per uscire. Non è vittima di nulla e non ha un solo motivo razionale per arrabbiarsicon una persona irrazionalmente distruttiva e di cui potrebbe facilmente liberarsi e di cui per propria scelta e per propri vantaggi (reali o immaginari) non vuole liberarsi. Ovviamente può anche decidere di mantenere la convivenza (per il bene dei figli o per denaro o per motivi religiosi), ma non ha alcun motivo razionale per accumulare rabbia e per considerarsi obbligata a “subire” i disturbi caratteriali del/della partner.

Le persone poco inclini al vittimismo trovano assurdo questo modo di agire e di interpretare la realtà, ma possono capire il senso di questa operazione se la “collocano” nel passato. Un bambino realmente maltrattato non può accettare né che quella situazione sia “data”, né che i genitori facciano del loro meglio ma, essendo emotivamente disturbati, possano fare solo disastri. Soprattutto non può accettare che le cose non cambieranno per anni. Se il bambino potesse parlare con sé, piangere e consolarsi per questo incubo, sarebbe già un adulto (e andrebbe via). Quindi, il bambino preferisce in certi casi riclassificare la realtà come un errore temporaneo o come un’ingiustizia da sanare e sceglie di stare in uno stato d’animo di ansia rabbiosa che blocca il senso di perdita e di lutto. Il lutto sperimentato dagli adulti è basato sull’accettazione di una realtà dolorosa e immodificabile e lentamente il lutto, la rinuncia e il pianto consentono di ritrovare una certa serenità. Il lavoro del lutto però è possibile proprio perché il dialogo interno garantisce una “compagnia minima costante”.
I bambini non avendo le risorse per elaborare i dispiaceri, ritrovare pace e poi cercare altre situazioni gioiose devono escogitare strategie difensive adatte ad interrompere il contatto con la realtà dolorosa. Purtroppo “decidono” inconsciamente la loro strategia difensiva e quindi dopo dieci o quarant’anni continuano ad evitare i lutti e a guastarsi le possibilità di gioire e di essere felici, perché sono “aggrappati” a quel “salvagente” afferrato nel passato intenzionalmente, ma inconsciamente. Il fatto di protrarre una difesa utile nell’infanzia in un contesto mutato radicalmente determina l’irrazionalità degli atteggiamenti difensivi in generale e del vittimismo in particolare.

Non solo il vittimismo è molto diffuso, ma è molto diffusa la tendenza a “compatire” chi ha scelto di sfruttare una situazione spiacevole anziché cambiarla o sottrarsi ad essa. In realtà queste persone “sensibili”, prendendo per buone le lagne rabbiose di chi non è realmente vittima, si risparmiano la pena di entrare in contatto con il vero dolore dell’interlocutore: se la persona vittimista a venti, cinquanta o a ottant’anni vive male e si lamenta senza far nulla per vivere meglio, da un lato sta reagendo difensivamente ad un “altro” dolore (ben più reale, profondo e antico) e da un altro lato si sta guastando la vita con le proprie mani oltre ad infastidire il prossimo. I “salvatori” molto “sensibili” che prendono per buone le lagne vittimistiche esibite, in realtà vogliono evitare di entrare in contatto con queste due situazioni realmente dolorose delle persone vittimiste e vogliono anche evitare di sentirsi sfruttate psicologicamente e quindi di essere sole mentre si danno inutilmente da fare per le povere “vittime” in difficoltà. Solo per il loro tornaconto psicologico si ostinano a “salvare” chi comunque pretende “di più”.

Le reali vittime hanno bisogno di comprensione e aiuto. Le persone vittimiste avrebbero bisogno di essere aiutate a “smetterla di farsi del male”, ma non chiedono questo aiuto proprio perché non riconoscono l’inganno che creano. Chi riconosce la realtà (terribile e dolorosa) dei giochi vittimisti, quindi, può solo allontanarsi accettando l’impossibilità di un rapporto autentico con chi vuole un rapporto manipolativo.

In tutte le situazioni in cui una persona (o gruppo), che indico con “A”, è realmente vittima di una persona o gruppo “B” e qualcuno (“C”) interviene, si presentano tre fasi significative.
1. A è consapevole della situazione e del fatto che non ha le risorse per opporsi (perché in tal caso combatterebbe); sente rabbia per l’aggressione e dolore per la situazione che non può modificare. Desidera aiuto e sente dolore finché l’aiuto non arriva.
2. C prova compassione e solidarietà per A, sente rabbia per B e interviene in aiuto di A che, appena può, collabora alla lotta fino alla modificazione della situazione. A prova rabbia e poi gioia per la vittoria e prova comunque dolore sia per aver subito inizialmente una situazione violenta, sia per aver dovuto comunque fare la fatica di lottare. A prova gratitudine per C. C prova rabbia e poi gioia per la vittoria e prova comunque dolore per essere stato messo nella situazione di scegliere fra la complice passività e la fatica di un impegno attivo che avrebbe preferito non attuare, ma che, data la situazione, ha attuato con sincera dedizione. C è anche lieto per le manifestazioni di gratitudine di A.
3. Dopo la conclusione di tale vicenda A fa tutto il possibile per evitare rapporti con persone o gruppi simili a B e per non creare disturbo alle persone o gruppi simili a C. Si dedica al proprio futuro e in tempi ragionevoli supera ed archivia la sventura che ha realmente subito e realisticamente affrontato.

Nelle situazioni in cui la vittima (reale) di una situazione adotta una strategia difensiva vittimistica, le fasi sono ben diverse.
1. A può modificare almeno in parte la situazione, ma non lo fa. Non prova dolore per il comportamento di B (di cui diventa complice) e nemmeno per la propria passività (che ha scelto). Prova rabbia perché B non fa ciò che “dovrebbe”. Prova anche rabbia perché nessuno si accorge (come “dovrebbe”) dell’ingiustizia e perché nessuno interviene per fornire una protezione non cercata ma comunque “dovuta”.
2. C prova compassione per A, dato che non capisce o non vuole capire che A è responsabile di ciò che apparentemente subisce. C interviene a favore di A e non nota o non vuole notare che A non partecipa attivamente alla battaglia in corso e continua a leccarsi ferite già rimarginate e non invalidanti. C continua a provare compassione e sollecitudine per A anche dopo la conclusione del salvataggio. A continua a non provare dolore per il male che ha subito e per il male che si è procurato con la sua passività e continua a provare rabbia per B. Non prova gratitudine per C, dato che ha fatto solo il suo dovere e per di più “in ritardo”. Manifesta gratitudine solo sul piano formale perché ritiene sia “doveroso” farlo. Non prova gioia per la vittoria a cui non ha partecipato, ma solo una vaga soddisfazione perché le cose sono andate come era giusto che andassero, anche se in ritardo. Non prova dolore per la battaglia che non ha sostenuto e nemmeno per l’energia spesa da C. A accetta passivamente la nuova situazione senza gioia. C avverte che non riceve gratitudine, calore, vicinanza da A, ma crede (o vuol credere) che A sia in difficoltà per ciò che ha patito e che “non riesca” ancora a “tirarsi su”.
3. Dopo la conclusione di tale vicenda, A inizia le ricerche di un’altra situazione in cui qualche persona o gruppo simile a B possa “approfittare” della sua “bontà”. Ricomincia ad odiare, si chiede (rabbiosamente) come mai tutti sfruttino la sua debolezza e come mai “gli altri” non intervengano per sanare tale ingiustizia.

Questo schema è ovviamente molto semplificato, dato che il vittimismo si manifesta con infinite varianti. A volte le persone vittimiste sono davvero vittime di una violenza (ad es. una forma di sfruttamento) o di una disgrazia (ad es. una malattia), ma comunque reagiscono vittimisticamente anziché su un piano adulto. Altre volte le persone vittimiste fraintendono le situazioni e inventano forme di sfruttamento inesistenti. Altre volte le persone vittimistiche provocano dei rifiuti fino ad ottenerli da parte di persone esasperate, per poi lamentarsi della brutale risposta ottenuta.

Un tratto comune a tutte le persone vittimiste è la mancanza di empatia. Riescono a dire e fare cose molto sgradevoli senza mai chiedersi come si sentano gli altri. Essendo in guerra con le ingiustizie sentono di avere la “licenza di uccidere”, almeno a parole. Tuttavia, sentire rabbia nei loro confronti è irrazionale come arrabbiarsi con una persona ritardata per i suoi ragionamenti sballati. Le persone vittimistiche non sono ritardate ma, bloccando la loro sensibilità,diventano in pratica incapaci di sentire. La rabbia nei loro confronti a volte viene attivata per non sentire il dolore di non poter avere rapporti umani significativi con loro. Poiché è davvero doloroso non poter avere rapporti decenti con genitori, amici, partner, colleghi, gruppi, associazioni che sguazzano nel vittimismo (o in altre forme di irrazionalità difensiva), è indispensabile accettare quel dolore, sia per non avvelenarsi le giornate, sia per prendere le distanze da chi non può essere aiutato, sia per capire chi ha invece davvero bisogno di aiuto e chi può e vuole stabilire rapporti autentici.
Se le persone vittimiste accettassero il loro vero dolore, vivrebbero meglio con se stesse e con gli altri e migliorerebbero almeno le situazioni modificabili. Si impegnerebbero nella propria vita e nella società con amore e senza rabbia irrazionale. Purtroppo, non sapendo nemmeno da lontano cosa sia l’esperienza del dolore, cosa sia l’accettazione di una mancanza irrimediabile e cosa sia la compassione per sé, non possono letteralmente immaginare che gli altri soffrano, dato che gli altri non sono “qualcuno” ma “qualcosa” nello scenario del loro dramma psicologico. Un dramma in cui la rabbia soffoca il dolore. Le persone vittimiste non piangono mai. Se emettono lacrime, gemiti e persino singhiozzi, in realtà “si piangono addosso”, cioè provano autocommiserazione rabbiosa anziché genuina compassione per sé. Per provare compassione per sé dovrebbero accettare proprio il dolore che evitano di sentire fin dall’infanzia e dovrebbero anche compatirsi per ciò che hanno distrutto o sprecato con le loro manovre difensive. Di fatto non riescono a cercare ciò che hanno nascosto e quindi non possono uscire dal loro circolo vizioso perché esso è “perfetto”.

Nel lavoro analitico con le persone vittimiste c’è un passaggio molto delicato in cui si rischia l’interruzione della collaborazione. Per la loro rigidità mentale non ammettono la distinzione fra errori e colpe e quella fra azioni e persone. In analisi si lavora sull’irrazionalità e sulla distruttività del cliente e non sul suo destino crudele; quindi si lavora sui suoi “errori” e a volte sul suo vittimismo. Appena i clienti cominciano a capire che l’analisi non è un luogo accogliente in cui si ricevono carezze per le ingiustizie subite, ma un luogo di reale collaborazione volto a chiarire i loro sentimenti irrazionali, le loro convinzioni irrazionali e i loro comportamenti irrazionali (per favorire un loro cambiamento), rischiano di sentirsi colpevolizzati e, per non sentirsi in colpa, di reagire vittimisticamente anche con l’analista: “tu mi giudichi”, “tu non mi accetti come sono”, “tu vuoi farmi sentire sbagliato/a come i miei genitori”, ecc. E’ essenziale chiarire la distinzione fra il giudizio (un’espressione basilare dell’intelligenza) e la svalutazione (un rifiuto della persona), dato che lavorare su un comportamento irrazionale non significa squalificare l’intera persona. Perché il lavoro proceda, bisogna che l’analista sia impeccabile e che il/la cliente abbia davvero interesse a lavorare su di sé. Se l’analista salta dei passaggi e/o il/la cliente non vuole davvero capirsi, ma solo “farsi accogliere”, il lavoro è impossibile.

Le persone vittimiste per sentirsi “al sicuro” hanno bisogno di situazioni conflittuali. Se vengono trattate bene si ritirano dal rapporto o cercano di provocare un conflitto per giungere ad individuare una “ingiustizia” da sopportare con rabbia o da combattere con rabbia, nell’attesa di una vaga ma “assoluta” prospettiva di “salvezza”. Infatti dire “grazie” qui ed ora implica il riconoscimento di questa realtà (attualmente gratificante, ma inevitabilmente anche dolorosa) e l’irrealtà di quell’altra “realtà buona e giusta” a cui sono mentalmente aggrappate.

Le persone vittimiste hanno iniziato nell’infanzia e continuano nel presente ad essere “allergiche” al dolore. Chi si ostina a “dialogare” con loro finisce per arrabbiarsi, se non vuole riconoscere di non ricevere alcuna considerazione come persona. L’ostinazione a chiarire razionalmente problemi evidenti con chi si offende, si giustifica e si indigna serve solo a non accettare che il rapporto da persona a persona non è voluto dall’altra parte e che, in fondo, il rapportonon esiste. Nel film A Beautiful Mind, di Ron Howard, il matematico John Nash si accorge che non fa una cosa sensata gridando alle sue allucinazioni di andare via, perché non si può combattere con ciò che non è reale. Con le persone vittimiste il passaggio, purtroppo terribile, è lo stesso. Rinunciare al confronto, all’attesa di un po’ di gratitudine, alla speranza di condividere un’analisi razionale dei fatti costa molto dolore, perché implica l’accettazione del fatto che l’altra persone “non c’è”, non vuole “essere-con” e vuole solo tenere in piedi il gioco relazionale in cui “sta male” ma in profondità è invulnerabile.
Le persone vittimiste si sono salvata nell’infanzia aggrappandosi all’idea che le cose non stessero semplicemente come stavano, ma che costituissero un’ingiustizia (da sanare). Nella vita adulta continuano a non voler capire cosa accade, cose è modificabile e cosa non lo è, cosa è davvero un’ingiustizia e cosa è semplicemente un dato di fatto. Soprattutto, quando agiscono, non agiscono per qualcosa, ma solo contro qualcuno. Agire per un obiettivo rende doppiamente vulnerabili perché comporta l’accettazione del desiderio di un coinvolgimento con altre persone e perché espone alla possibilità che l’obiettivo non possa essere raggiunto. Le persone che invece lottano “contro”, cadono sempre in piedi: se ottengono un successo provano una temporanea soddisfazione e se non ottengono un successo sanno comunque di essere sconfitti ma “ingiustamente”.

La comprensione del ruolo del vittimismo nella storia personale chiarisce che i vittimisti non sono certo “i buoni”, ma sicuramente non sono nemmeno “i cattivi”. Noi ragioniamo in termini di buoni e cattivi solo quando non vogliamo capire le persone e soprattutto la nostra solitudine con le persone. Capire le persone è però indispensabile e appassionante: ci apre la testa e il cuore. Non capirle a volte è comodo, ma ci condanna ad un pessimo rapporto con noi stessi e con gli altri. I vittimisti non sono da svalutare semplicemente perché non hanno la più pallida idea del motivo per cui fanno ciò che fanno. E fanno ciò che fanno per non sentire il loro vero dolore. Quel dolore che da sempre temono così intensamente da preferire una vita arida ad una vita intensa.

Una mia cliente mi disse al primo colloquio di aver già fatto tre anni di analisi. Le chiesi quali elementi di consapevolezza avesse ricavato da tale lavoro e cosa le risultasse ancora da chiarire, dato che era venuta da me anziché tornare dalla sua psicologa. Mi disse che aveva capito quanto il padre l’avesse condizionata nel suo problema con gli uomini, ma forse non aveva approfondito a sufficienza la questione. Le chiesi cosa avesse capito della madre e mi rispose che non aveva mai lavorato sulla madre, perché non ne sentiva la necessità e perché la psicologa la lasciava parlare di ciò che voleva. La invitai a fare un dialogo immaginario con la madre e ci trovammo nel problema vero: non quello che si era inventato la cliente e che interessava la sua psicologa, ma quello di una bambina sola che, dall’adolescenza in poi aveva cercato negli uomini ciò che la madre non aveva potuto dare: nutrimento, accettazione, sicurezza. Tutto qui. Nella psicoterapia precedente aveva indagato sulle “cause” delle sue scelte irrazionali con gli uomini, senza trovare nulla di rilevante, dato che le scelte irrazionali non hanno cause, ma scopi diversi da quelli consapevoli. Tali difficoltà sul piano interpersonale, quindi, non sono “causate” né dai padri né dalle madri (idea vittimista), ma sono il risultato del persistere di atteggiamenti difensivi costruiti dalla persona stessa (nell’infanzia) per non accettare il dolore causato (allora) dai genitori e soprattutto dal genitore “intoccabile”, con cui “non c’erano problemi”.

C’è una espressione “magica” che costituisce la spia di una modalità di “non-rapporto” caratterizzata dal vittimismo e tale espressione è il “sentirsi feriti”.
Proverò a chiarire la cosa ricordando che, nella realtà fisica, una ferita è diversa da un livido o da un graffio, perché lacera tessuti profondi e organi. Una ferita può essere più o meno profonda, ma se non è letale causa comunque dei danni e lascia delle cicatrici. Inoltre, le ferite si subiscono: è decisamente improbabile che una persona si pianti un coltello nella pancia e chi intenzionalmente vuole “farsi del male”, solo in casi abbastanza rari si procura dei tagli. Chi si taglia le vene vuole morire, non “ferirsi”. Ora, su questa base, possiamo capire cosa si intenda esattamente quando si afferma di “essere stati feriti” (psicologicamente) da una persona: si afferma di essere stati in qualche modo “colpiti” in profondità, di avere subito delle lesioni, di avere ancora almeno delle cicatrici. Chi si sente ferito, inoltre pensa di non essere corresponsabile dell’aggressione subita, perché in questi casi usa altri termini: “ho tirato troppo la corda e poi ho fatto perdere le staffe a quella persona”. Chi si sente ferito, quindi si sente sempre e comunque “ingiustamente ferito”.
Ora, quando si viene davvero feriti da una persona? Se elenco le esperienze peggiori della mia vita adulta (essere stato accusato senza ragioni, essere stato escluso o essere stato rifiutato da chi desideravo e amavo, ecc.) devo dire che in tali circostanze ho sofferto molto, ma non sono mai stato “ferito”. Nelle brutte (e istruttive) esperienze in questione ho perso cose “esterne” (accoglienza, rispetto, intimità sessuale), ma non la mia integrità: ero intero prima delle delusioni e sono rimasto intero dopo ogni esperienza deludente. Se mi fossi “spezzato” (ad esempio producendo reazioni psicologiche o psicosomatiche distruttive) mi sarei ferito da solo reagendo impropriamente alla frustrazione. Ho invece valutato la situazione, capito cosa non potevo più avere, espresso con i pianti necessari il mio dolore e lentamente mi sono sentito più sereno, ma senza cicatrici, dato che non c’era stata ferita alcuna.

Con ciò non sto dicendo che le ferite psicologiche non possano esserci, ma sto dicendo che non possono esserci quando si è adulti. Solo i bambini, se vengono respinti e svalutati si lacerano e si sentono cattivi, sbagliati, separati da se stessi e quindi “spezzati”. Sono loro stessi a lacerarsi, ma lo fanno perché la solitudine a quell’età è intollerabile. Un bambino è tale perché non ha ancora stabilito dei confini netti fra il suo mondo interno e quello esterno e quindi non può sentirsi OK nel suo mondo interno e pensare che i genitori siano pazzi a definirlo non-OK. Deve fare qualcosa per mantenere la corrispondenza, l’armonia fra sé e il mondo esterno “che conta”. Se non lo facesse si troverebbe a “cadere nel vuoto” come il boscaiolo che sega il ramo su cui è seduto. Si ferisce per salvarsi, ma non ha opzioni alternative. In questo senso si può quindi ben dire che certi comportamenti dei genitori feriscano i bambini perché, anche se non li lacerano interiormente, lacerano il rapporto bambino/genitori che è il vero “mondo” o “corpo” in cui i bambini esistono integri e interi. Anche se la ferita interiore è prodotta dal bambini stesso (e proprio per questo può essere, come qualsiasi difesa, superata in seguito, con un lavoro analitico), la ferita nel rapporto è una ferita inferta al bambino perché il bambino vive solo in quel rapporto: non essendo un adulto non ha la propriavita prima di “inter-agire”, ma vive nel rapporto e, se il rapporto non è sicuro, lui è meno vivo di prima, come con un coltello nella pancia.
Io penso che le ferite dei bambini siano la cosa peggiore prodotta dagli esseri umani in millenni di storia. Non sto colpevolizzando nessuno, dato che se le persone funzionassero su un piano adulto non ferirebbero i bambini, così come non si danno martellate sui ginocchi. Tutti i comportamenti distruttivi sono difensivi e inconsci: anche i nazisti sapevano bene di compiere un genocidio, ma non avevano la più pallida idea dei motivi profondi per cui agivano.

Torniamo ai bambini: i bambini sentono una ferita, soffrono un attimo e poi attivano qualche difesa. Diventano “dei duri” o dei “piagnoni” ma comunque diventano insensibili alla ferita dei genitori proprio perché la lacerazione interna che si sono creati permette di non sentire che il rapporto con i genitori è stato (da essi) reciso e che sono soli. Il dolore non è sentito, non è elaborato, non è superato e la difesa psicologica (inconscia) permane nel tempo e si manifesta poi nella vita famigliare, lavorativa o sociale.
Il sentirsi feriti è una delle peggiori sfumature della rabbia vittimistica, ma il vittimismo non implica sempre e necessariamente il sentirsi feriti. Alcuni vittimisti non esibiscono soprattutto le proprie “ferite” ma preferiscono “smascherare” le ingiustizie e le colpe degli altri. Il risultato è lo stesso anche se lo sviluppo è diverso. Dire “mi hai ferito” non equivale a dire “sei solo una carogna e sfrutti la mia disponibilità”, ma sia la prima espressione, sia la seconda, rientrano nella logica vittimistica e raggiungono lo stesso obiettivo.

Il lavoro analitico con le persone vittimiste non è semplice, ma quando conduce alla consapevolezza della distorsione del pensare e del sentire provocata dalla difesa vittimistica, tali persone accedono a sentimenti profondi di dolore e solitudine e poi scoprono un rispetto per sé e un senso della propria dignità che prima non conoscevano. Un’altra conseguenza che ho potuto riscontrare quasi esclusivamente nelle persone vittimistiche è la tendenza a “farsi il verso”, a scherzare bonariamente ma “senza sconti” sulla loro modalità difensiva. Un cliente, parlandomi di un’incomprensione con la sua ragazza mi disse: “Mi sono accorto che stavo per attaccare la lagna del povero orfanello incompreso, ma prima di chiamare il Telefono azzurro le ho dato un bacio e poi ci siamo capiti”. Ecco, queste espressioni “sferzanti” e sarcastiche sul vittimismo sono terribilmente offensive e assolutamente inutili se pronunciate da un’altra persona e indirizzate a chi sta facendo un gioco relazionale vittimistico. Sgorgano spontaneamente da chi ha chiarito quella difesa, ha provato il dolore autentico che la difesa occultava e ha già assaporato la libertà che è possibile solo fuori dal recinto delle “lagne”.

La persona vittimista non sa e si rifiuta di sapere che la vita “è sempre adesso”, con alcune gioie e alcuni dolori, per cui proprio adesso va affrontata. Rinunciando a conoscersi e ad accogliere le proprie lacrime non può immaginare che le altre persone siano soggetti sensibili e altrettanto bisognosi di comprensione. Non si adopera per migliorare la propria vita e non ha alcuna genuina disponibilità a migliorare la vita degli altri (a meno che non lo ritenga un “dovere”), dato che gli altri “stanno meglio” per definizione. Senza questa curiosità, passione, disponibilità, impegno, la persona vittimista non ha “niente da fare”, a parte adempiere ai propri compiti e dedicarsi ai passatempi.

......

Una valutazione di quanto il vittimismo abbia inquinato ed inquini anche le ideologie che si sono sviluppate mettendo a fuoco reali forme di oppressione, può essere fatta evidenziando quanto le ideologie più diffuse trascurino il gruppo di vittime più esteso nel pianeta, il più debole, svalutato ed anche oppresso: il “gruppo” dei bambini. Milioni di bambini lasciati soli, spostati come pacchi, “responsabilizzati” e colpevolizzati, “educati rigidamente” o trascurati, derisi o puniti, costretti a diventare grandi o a restare piccoli. Milioni di bambini che non si organizzeranno mai in un “movimento di liberazione” perché isolati nelle famiglie, perché troppo bisognosi di sicurezza per poter anelare alla libertà e perché troppo impegnati a dissociarsi e a costruire difese psicologiche per unirsi fra loro in un progetto comune. Queste reali vittime assolutamente incapaci di vittimismo avrebbero tutti i requisiti per essere considerate con la massima attenzione da parte di qualsiasi movimento realmente orientato a migliorare le condizioni dei gruppi più deboli e oppressi.
Purtroppo, l’assenza di una diffusa e sentita attenzione per la condizione dei bambini, costituisce il metro con cui si può misurare la scarsa autenticità di tante istanze “liberatorie” o “progressiste” che caratterizzano la cultura del mondo in cui viviamo.

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