Un libro spiega la rivoluzione degli scatti con lo smartphone. All’insegna della condivisione, l’immagine diviene l’evento

gen 7, 2016 0 comments
DI MARCO BELPOLITI
Redazione di Time in una New York semideserta del 2012. Sta per arrivare l’uragano Sandy. I redattori si interrogano su come documentare l’avvenimento. I fotografi del giornale sono già stati tutti sguinzagliati in giro, ma l’area da coprire è troppo vasta. Kira Pollak, direttrice del dipartimento fotografico, ha un’idea: perché non cerchiamo su Instagram i fotografi che ci servono? Detto fatto. Ne scelgono cinque guardando le immagini postate. Vengono date loro le credenziali per accedere al sito del Time per caricare le immagini. Il social network ha fornito i fotografi necessari. Il caso Sandy è diventato perciò proverbiale nel mondo giornalistico e in particolare tra i fotografi di tutto il mondo, segnando un punto di non ritorno nell’uso degli iPhone e degli smartphone nel documentare gli avvenimenti. 

Irene Alison ha intervistato in un volume, iRevolution (ed. Postcart), undici fotografi professionisti che lavorano da tempo con il cellulare e utilizzano i social per diffondere le loro immagini ogni giorno. I dati sulla esplosione della fotografia - se ancora di fotografia si può parlare - nei social network sono straordinari. Si calcola che nel 2014 erano 880 miliardi le foto scattate: una ogni due minuti. Ora la cifra potrebbe essere quasi doppia. Su Facebook, Instagram, Tumblr, Pinterest sono milioni ogni giorno le immagini inserite e condivise. Alec Soth, uno dei fotografi giovani più noti e ammirati, ha iniziato da poco a realizzare su Instagram una propria galleria. Ci sono molti fotografi professionisti che hanno nei loro profili social migliaia di follower: da 50 mila a 100 mila. Molti di loro hanno aperto una finestra sulla loro vita quotidiana e fotografano di continuo la loro intimità e la rendono pubblica. 

Uno scatto della guerra in Libia realizzato da Benjamin Lowy, tra i primi fotografi a usare lo smartphone in zone di conflitto. Ha persino ispirato una filtro per l’app Hipstamatic, la Lowy Lens  


Il fenomeno del selfie, cui è stata dedicata una grande attenzione, è solo uno degli aspetti della iRevolution in corso. La mobile photography sta modificando l’atto fotografico, il suo senso e significato. In occasione di una celebre mostra realizzata dopo l’11 settembre 2001 con immagini prese durante l’attacco alle Torri Gemelle o subito dopo, scatti esposti rigorosamente anonimi, Susan Sontag osservò che la fotografia è l’unica arte in cui anche un dilettante può realizzare un’immagine memorabile; si parla di «capolavori accidentali».  

Il primo cambiamento in corso in quest’ambito riguarda la forma stessa della fotografia. Mentre in precedenza trascorreva un tempo non breve tra lo scatto e la sua pubblicazione (scatto, sviluppo, scelta della foto, stampa dell’immagine), ora è invece ridottissimo. Bastano pochi minuti, a volte solo una manciata di secondi, e subito tutti possono vedere gli scatti. Questo «vedere» ha una declinazione ulteriore: «condividere». Condividere su un social un’immagine non sembrerebbe di per sé un fatto tecnico, invece lo è. Marshall McLuhan ha sostenuto che le azioni compiute dai corpi con i media sono già un fatto tecnico. Condividere significa oggi diffondere l’immagine, quindi darle un nuovo significato in un contesto in cui il vedere non è più solo un atto passivo: è un’attività alla pari di scattare.  

Kira Pollak del Time, commentando l’evento-Sandy, ha detto una cosa molto interessante: «non siamo tutti fotografi, siamo tutti testimoni». Un’osservazione acuta. Si è modificata non solo l’attività di produrre immagini, ma anche quella di chi le guarda e le condivide. La contrazione temporale tra l’atto dello scatto e la visione condivisa fa sì che si produca un passaggio dal vedere al partecipare: siamo tutti lì, siamo tutti testimoni. L’immagine, poi, non registra più l’evento, ma diviene l’evento, osserva Alison. L’evento è ciò che accade, e l’immagine è ora un accadere. Meglio: fa accadere. Scattare è comunicare, comunicare è vedere, vedere è produrre un evento. Siamo dentro l’instant audience di 2 miliardi di smartphone. Né ricordare né documentare, bensì comunicare in modo immediato. 

Inoltre, la fotografia smart, quella fatta coi cellulari, moltiplica la nostra visione del mondo in un accumulo impressionante di dettagli, così che molte immagini nei social appaiono dettagli di dettagli. La loro esplosione polverizza il mondo visto. Guardando le immagini degli autori intervistati da Alison si ha la sensazione che la maggior parte fotografi il suo stesso vedere, e non ciò che vede. Il loro sguardo è dominante rispetto alle cose che si vedono negli scatti (oggetti, persone, luoghi). La maggior parte di loro lavora all’insieme delle proprie foto, o a quelle di altri, per serie, identificando un tema in un ambito specifico, come Everyday Africa, diventato un punto di riferimento per quel continente. Nessuna foto è ora più memorabile. Nessuna resta tale se non per un tempo brevissimo, ed è subito cancellata dalla seguente. Non importa più, a un primo sguardo, la qualità dell’immagine, ma la sua pervasività: deve essere oggettiva e soggettiva al tempo stesso, neutrale e insieme intima. Deve afferrare chi la vede e trattenerlo, anche se per pochissimo. Poi scivolare via. 

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