Il valore dell'identità

giu 3, 2017 0 comments
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Di Andrea Zhok
Fonte: Antropologia Filosofica
Una parola inattuale
  • Tra i termini che godono di cattiva stampa nella riflessione etica e politica contemporanea vi è certamente il termine “identità”. Espressioni come “rigurgiti identitari”, “politiche identitarie” o lo stesso termine “identitarismo” hanno una chiara connotazione reazionaria, assimilata alle posizioni di partiti di estrema destra. Questo non è un mero fraintendimento, né propriamente un errore: il ricorso politico alla nozione di identità, in particolare nella versione dell’identità come matrice del nazionalismo, ha una storia nel migliore dei casi discutibile, spesso semplicemente indifendibile. L’identitarismo nella forma nazionalistica si è manifestato nel corso del ‘900 frequentemente secondo linee xenofobe e razziste, producendo politiche internazionali aggressive, e politiche nazionali autoritarie. In questo senso è ben giustificato mantenere un’elevata vigilanza etico-politica quando si manipola l’idea di identità, vistone il potenziale distruttivo.

Lo sfondo storico
  • E tuttavia raccontare la storia della nozione di ‘identità’ in senso etico-politico a partire dalle degenerazioni della prima metà del XX secolo è una scelta comprensibile, ma anche fuorviante. Il radicalismo identitario che si ritrova prima nel nazionalismo e sciovinismo che precede la Prima Guerra Mondiale, e poi nelle dittature che condurranno alla Seconda, non è una bizzarra abiezione nata dal nulla: si tratta di una reazione storica a dinamiche socioeconomiche fino ad allora inedite. È l’allentarsi della capacità degli Stati Nazione di dare risposte efficaci alle dinamiche della ‘prima globalizzazione’ (1870 – 1914) a generare una reazione rabbiosamente identitaria, in particolare nella piccola e media borghesia europea, che si ritrovò minacciata dalle prime forme di competizione internazionale con ribassi insostenibili, e dalle prime forme massicce di libero spostamento dei capitali. Lo sfociare della competizione economica tra paesi europei in competizione coloniale (imperialismo) e poi in guerra mondiale è una dinamica che può considerarsi acclarata (anche se naturalmente nell’infinito dibattito sulle ‘origini della Prima Guerra Mondiale’ entrano moltissime altre componenti, dal sistema dei trattati segreti, al bellicismo prussiano, al revanscismo francese dopo la battaglia di Sedan, ecc. ecc.).
  • Guardare al quadro più comprensivo non serve a giustificare le degenerazioni nazionalistiche del ‘900, ma serve a comprendere come il problema dell’identità (qui come identità nazionale) vada inteso non come un mero ‘errore contingente’, in cui non ricadere, ma piuttosto come il problema di un’esigenza profonda che rifiuta di essere messa da parte.
Identità personali.
  • Per comprendere il senso assiologico dell’identità è utile fare una breve premessa riferita non alle identità collettive, bensì all’identità personale di ciascuno di noi. Il tema della definizione dell’identità personale è tema complesso e molto discusso, e sarebbe impossibile riassumerne qui anche solo le diramazioni principali [me ne occuperò a breve in forma monografica]; ciò che si può provar a fare è fornire un quadro assertorio che renda intuitivo il senso dell’identità per ciascuno di noi.
  • L’identità personale non è un dato di fatto, non corrisponde ad un’entità empirica. È notoriamente arduo trovare una qualche collezione di attributi che rimangano tutti costanti nel corso dell’esistenza di un individuo e che perciò lo definiscano come dotato proprio di quella identità e non di un’altra. Ed in ogni caso tale collezione sarebbe tutt’al più la nostra identità come oggetto per altri, non la nostra identità per noi stessi. Le nostre conoscenze, le nostre capacità, le nostre idee, e anche la materia del nostro corpo, cambiano in modo radicale nel percorso che va dalla nostra nascita alla nostra morte. Non c’è alcun fatto materiale, e neppure alcun insieme circoscritto di credenze, cui potremmo far corrispondere univocamente la nostra ‘identità’. Neppure la continuità della nostra memoria di noi stessi (cfr. Locke) definisce adeguatamente la nostra identità, perché il punto chiave è che, per quanti ‘buchi’ la nostra memoria abbia, noi sappiamo sempre che ciascuna nostra memoria è appunto nostra: appartiene a ciò che siamo, siamo stati e vogliamo essere.
  • Ma per quanto apparentemente sfuggente sia la nostra capacità di circoscrivere obiettivamente cosa conti come nostra identità, tuttavia la nostra identità percepita è qualcosa cui teniamo intensamente, qualcosa che difendiamo quando minacciata, che perseguiamo con tenacia, che cerchiamo nel tempo di consolidare sulla scorta di modelli o ideali molteplici, e che soffriamo quando viene incrinata (ad es. da malattie neurodegenerative, amnesie traumatiche, ‘lavaggio del cervello’, ecc.). L’identità personale di fatto implementata è qualcosa di mobile, di costruito, sia pure non arbitrariamente, sulla base di inclinazioni spesso abbastanza generiche, è qualcosa di diveniente nel tempo, ma al tempo stesso è qualcosa per cui combattiamo vita natural durante, cercando la nostra sfera di autonomia, ‘diventando grandi’, ‘diventando qualcuno’. La nostra identità non ci è regalata da nessuno, ma è oggetto di contenzioso e talvolta di compromesso. Ogni decisione, ogni rammemorazione, ogni autonarrazione ed ogni progetto sono momenti in cui ne va della costituzione della nostra identità che definisce anche il nostro senso. Anche se potremmo avere grandi difficoltà a spiegare cosa c’è esattamente di comune tra il noi stesso che ricordiamo all’asilo o sui banchi di scuola e il noi stesso maturo, o anziano, noi sappiamo che quella continuità di senso rappresenta precisamente un’identità, la nostra identità: ciò che in definitiva siamo e vogliamo continuare ad essere. Solo la nostra identità personale nel tempo rende sensate cose come l’assunzione di responsabilità, la formulazione di promesse o impegni. È solo perché io assumo di essere lo stesso che ero ieri, e che sarò domani, che posso farmi carico di quello che ho fatto ieri (essendone lodato o rimproverato) e impegnarmi o promettere di fare (o essere) qualcosa domani. Solo in questa dimensione identitaria esistono sentimenti come il rammarico o la speranza, la vergogna, il pentimento o l’orgoglio. La nostra identità dunque non ci si dà mai come una serie di realtà fattuali, per quanto sia importante per noi produrre queste o quelle realizzazioni, ma si presenta piuttosto come quell’orizzonte di senso unitario tale per cui un agente può sviluppare la propria azione nel tempo. La nostra identità personale non appartiene alla sfera dei fatti, ma dei ‘valori’.
Identità collettive.
  • Che dire delle identità collettive? Qui potrebbe sembrare che le difficoltà nello stabilire cosa sia un’identità crescano esponenzialmente. Sul piano empirico, se già stabilire cosa sia l’identità di un individuo risulta arduo, cosa potremmo mai addurre per determinare l’identità di un gruppo (comunità, società, stato, ecc.)? E cosa mai potrà ‘accomunare’ me e migliaia o milioni di altri individui, se non magari alcuni tratti biologici?
  • Ma anche qui, ed anzi forse in modo persino più chiaro, vediamo come l’identità non sia né possa mai essere una questione fattuale. Un’identità non si ha; un’identità si diventa, costruendola, difendendola, ricostruendola. L’identità in senso collettivo è quel luogo ideale dove possono verificarsi comprensione reciproca, concordia circa ciò che è degno di memoria, unità in ciò che è degno di essere sperato, collaborazione in ciò che può essere progettato. Non so se mai in terra tale identità collettiva si sia pienamente incarnata, ma è certo che per tali identità ideali si è combattuto a tutte le latitudini ed in tutti i tempi.

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