Piazza Fontana e la psicologia delle masse

gen 10, 2020 0 comments

Di Enzo Pellegrin

Nell’anniversario del tragico 12 dicembre 1969, mi è capitata sott’occhi un’intervista allo Storico Miguel Gotor, titolata “Non chiamiamola strage di Stato” (1). Come spesso avviene, il titolo ingigantisce le parole dell’intervistato anche oltre il lecito, ma è significativo un passo dell’intervista dell’autore sul punto:
“La Strage di Stato è stato il titolo di un libro che ebbe molto successo all’epoca. Cosa pensa di questo concetto?
Fu un’espressione efficace sul piano politico, propagandistico e militante allora, ma oggi, dal punto di vista storico, la trovo insufficiente e persino ambigua. In primo luogo perché deresponsabilizza i neofascisti che ormai lo usano anche loro in questo senso. Se è stato lo Stato, nessuno è stato. Per capire, invece, bisogna anzitutto fare lo sforzo di distinguere. E poi perché, se è ormai accertato sul piano giudiziario e storico che nei depistaggi furono coinvolti esponenti degli apparati, dei servizi segreti e dell’ “Alta polizia” sopravvissuti al fascismo, vi furono anche magistrati come Pietro Calogero e Giancarlo Stiz o agenti come Pasquale Juliano che imboccarono da subito la strada della pista nera, con coraggio e andando controcorrente. Non erano anche loro esponenti dello Stato? Nella notte della Repubblica, nonostante il fango deliberatamente sollevato, il faro della giustizia e della ricerca della verità rimase acceso e non è giusto dimenticare l’impegno personale e professionale di quegli uomini con formule genericamente autoassolutorie.” (2)
Gotor si scaglia anche contro il concetto di “manovalanza neofascista” della strage. Partendo dal materiale processuale, che più di ogni cosa ha provato il coinvolgimento della “pista nera”, lo storico afferma che, ritenere i neofascisti dei puri esecutori, rischia di attenuare il loro ruolo militante nell’attacco alla democrazia.
Non c’è dubbio che, senza la partecipazione ed il concorso di una fitta rete di neofascisti, gli orrori delle bombe del 1969 non sarebbero venuti alla luce. Tuttavia, i distinguo di Gotor, alla fine non mi convincono, perché rischiano di anestetizzare la verità storica più importante che scaturisce da Piazza Fontana: lo Stato, macchina direttiva, pienamente responsabile, è intervenuto nelle dinamiche sociali, esercitando ed organizzando una sostanziale operazione sotto falsa bandiera, ed ha tentato di gestire la formazione dell’opinione e della coscienza dei cittadini, mediante tecniche afferenti alla psicologia delle masse.
Che all’interno dello Stato vi siano state figure individuali che abbiano esercitato un’azione meritoria in posizione di indipendenza non può sminuire la verità storica, per la quale la macchina direzionale statale ha imboccato, organizzato, costruito e sostenuto, fin dai primi momenti, un’operazione volta a creare tensione e caos, in un momento di lotta sociale, al fine di scaricare l’orrore su parti in lotta aventi proprie rivendicazioni contro il potere.
Non a caso, Gotor cita quale esempio di indipendenza i Magistrati delle Procure Venete. Ma questi furono soggetti istituzionali per loro natura indipendenti, soggetti che, comunque, per precetto costituzionale, non potevano essere direttamente ed impunemente riportati in rotta dalla macchina direzionale dello Stato.
Ben diverso fu il caso degli apparati di Polizia e dell’Esercito, i quali non solo non si discostarono da un sentiero poco virtuoso, ma che appaiono coinvolti in momenti anche precedenti alle bombe del 12 dicembre.
D’altronde, pochi passi prima, è lo stesso Gotor che si lancia giustamente contro un altro luogo comune, quello dei “servizi deviati”:
“Non si può usare questo concetto quando furono i vertici del Sid (il vecchio servizio militare), cioè i generali Vito Miceli e Gianadelio Maletti, e i vertici dell’Ufficio Affari riservati (Umberto D’Amato e Silvano Russomanno) i principali promotori dei depistaggi, funzionali a occultare la pista nera con quella anarchica. Costoro promossero depistaggi di provocazione, di copertura e di omissione, in particolare non informando la magistratura di quanto già sapevano sull’effettivo ruolo svolto dai neofascisti nella strage e, in alcuni casi, aiutarono i neofascisti inquisiti a fuggire all’estero.” (3)

Quella destra cresciuta e coccolata all’interno dello Stato Atlantico
Al di là di ciò, la storia processuale ha dimostrato la collaborazione tra apparati dello Stato e neofascismo veneto intenti ad armare complotti sin da prima delle bombe del 12 dicembre.
Già nel 1966, Freda e Ventura fanno giungere a mezzo posta ad oltre duemila Ufficiali delle Forze Armate Italiane, appartenenti a comandi ed unità stanziati nel Triveneto volantini contenenti un appello per la formazione di “Nuclei a Difesa dello Stato”, con i quali rovesciare l’ordinamento vigente per imporre i rigidi principi dell’autorità e della gerarchia (4).
Ciò che è rilevante non è tanto il tenore istigatorio del volantino, ma il fatto che i due giovani neofascisti veneti, poco più che ventenni, erano in possesso degli elenchi, degli indirizzi, delle aggiornate assegnazioni degli Ufficiali di una delle regioni militari più sensibili d’Italia. Materiale informativo di tale importanza suggerisce collegamenti di una certa levatura, non solo con l’ambiente delle Forze Armate, ma anche con quello della NATO. Ruggero Pan, personaggio coinvolto nelle indagini per la strage del 12 dicembre ebbe a dichiarare di aver visto siffatti elenchi a casa di Ventura, nascosti all’interno di una gamba del tavolo (5).
Il Pubblico Ministero Alessandrini, nella sua requisitoria 13.12.1974, primo processo sulla Strage, affermò che sin dal 1966 Freda e Ventura erano in contatto con l’imputato Giannettini installato all’interno del SID (6), ma è verosimile che un tale materiale non potesse essere conosciuto e nemmeno liberamente utilizzato ed “agitato”, senza una certa inerzia o complicità dell’apparato NATO. Infatti, per molto meno, ed in anni più lassisti, altri furono accusati di spionaggio e condannati a pene detentive (7).
Sin dai primi momenti delle indagini, documenti ufficiali mostrano l’interessamento degli apparati dello Stato al filone nero dell’inchiesta, sviluppato dai Pubblici Ministeri veneti. Ecco cosa scrivono operatori veneti del SID al quartier generale ai primi di novembre del 1971, quando sta venendo alla luce un arsenale fornito anche di armi ed esplosivi verosimilmente utilizzati e procurabili solo all’interno delle dotazioni degli eserciti NATO, occultato a Castelfranco Veneto per conto di Freda e Ventura:
“Non è stato possibile acquisire precisi dati di fatto sulle varie tappe dell’istruttoria e sulle motivazioni delle decisioni della magistratura, la quale si è chiusa in un riserbo impenetrabile e ha fatto capire, in occasione di cauti tentativi per eventuali approcci, di non gradire interferenza alcuna nell’inchiesta. Serpeggia da tempo l’impressione che la magistratura sia rimasta invischiata nelle mene di una vicenda intricatissima e che stia tentando ora una via d’uscita attraverso una serie di appigli procedurali. Tutta la questione potrà essere agevolmente ridimensionata”. (8)

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