Di Claudio Melchior *
La Coca Cola, quando realizza una pubblicità , non presenta il suo prodotto: non ci dice che è buono, che fa bene, che è conveniente. Si limita a “farci vedere” il prodotto, inserendolo in un contesto in cui ci sono persone di un certo tipo, che fanno un certo tipo di cose, in un mondo caratterizzato da certi colori, musiche, e da un particolare tipo di mood. Lo spot, a quel punto, è una narrazione che non ha lo scopo diretto di spingerci a bere Coca Cola, bensì quello di associare il prodotto a quelle immagini, a quegli stereotipi, a quell’idea di fondo, a quelle caratteristiche riconoscibili.
Il bello della comunicazione che passa in questo modo è che noi, che guardiamo gli spot, normalmente non ci rendiamo conto di ricevere questi messaggi, perché non sono mai esplicitamente detti. Se la Coca Cola dicesse: “sono simpatica”, il nostro cervello non avrebbe problemi a filtrare questo messaggio esplicito, e domandarsi: “è vero che la Coca Cola è simpatica?”, per poi concludere sì o no, a seconda delle nostre opinioni.
Da alcuni mesi, i media occidentali sono impegnati a veicolare, commentare e riflettere su un particolare tipo di spot pubblicitari: i messaggi shock della campagna comunicativa del cosiddetto Stato Islamico. Qual è la “polverina comunicativa” che resta al termine della visione di questi spot? In altre parole, quali sono i “veri” messaggi contenuti nella campagna, quelli che passano oltre i filtri del nostro cervello e si imprimono come “dati di fatto” nella nostra mente senza che ne siamo pienamente coscienti? Proviamo a riassumerne qualcuno a modo di esempio.
“Comunicare” paura e senso di insicurezza. In pubblicità non basta dire “il mio prodotto è migliore” per convincere chi ascolta. Bisogna spiegare, argomentare, o provare perché è il migliore. Questo semplice artificio retorico, se il perché risulta percepito come convincente, riesce a dare forza a un messaggio che, di per sé, non ce l’avrebbe. Il primo messaggio rivolto dallo Stato Islamico all’Occidente con questa campagna di propaganda è la paura: “dovete avere paura”. Ma nessuno “crederebbe” a un messaggio del genere senza una motivazione, un perché forte, che dia sostanza retorica al messaggio.
La effettiva presenza del rischio è testimoniata da ciò che avviene dietro le telecamere, e dalla percezione che il fatto sia reale, non realizzato con le tecniche di finzione tipiche dei film. Questo porta a un naturale effetto di empatia (“mettersi nei panni di”) nei confronti del condannato, in particolare nel caso dei primi filmati (quelli maggiormente efficaci e filtranti rispetto alle nostre difese psicologiche); l’empatia si trasforma in disorientamento e poi, appunto, in paura, che è dovuta al fatto che, assieme al messaggio, arriva anche la consapevolezza del destino subito dalla persona nei panni della quale ci siamo (comunicativamente) calati.
Soldati in uniforme particolare, mosse, movimenti e passaggi sempre uguali nel tempo. Le ritualità si formano in tempi lunghi. Se vediamo una ritualità , dunque, assumiamo che esista un passato lontano nel tempo, una tradizione, in cui il rito si è formato e a cui il rito guarda.
Anche nel caso in cui la ritualità sia stata inventata ex novo a fini di propaganda, essa implica comunque come minimo (i) un ragionamento progettuale, (ii) la sua oggettivazione in regole, ordini, indicazioni, (iii) l’accettazione e l’apprendimento di queste regole da parte di un gruppo non piccolo di persone, (iv) le “prove”, come a teatro, che sicuramente sono state fatte perché altrimenti sarebbe impossibile poter giungere alla fine a (v) eseguire la ritualità in modo convincente (e perfettamente a favore di telecamera).
Prossemica. Le vittime sempre nella parte sinistra dello schermo (dal punto di vista di chi guarda). Ovvero nella parte visiva che attira maggiore attenzione e che in modo più veloce e immediato veicola il messaggio alle funzioni emotive dell’emisfero destro del cervello. Sia con i colori, sia con la disposizione nello spazio, la scena è sempre costruita per veicolare l’attenzione sulla vittima.
Che deve risultare al centro dell’attenzione per poter più facilmente diventare oggetto di empatia, di identificazione. La vittima in ginocchio, il carnefice in piedi. Anche un marziano che osservasse questa scena senza avere nessuna nozione di cosa sia la razza umana riceverebbe in modo immediato il messaggio: in queste immagini c’è un soggetto che ha il potere (posizione eretta, colore nero, volto coperto, arma in mano) e uno che ha ceduto, ed è sottomesso (tuta anonima e informe di colore arancione, volto scoperto, mani legate e posizione inginocchiata).
Al di là delle motivazioni reali, che sono magari solo tecniche e di visibilità , riutilizzare sempre il medesimo colore, contrapponendolo al nero quasi integrale dei militanti, rappresenta una scelta chiara. Il nero, nella tradizione occidentale, è il colore delle tenebre, dei “cattivi” dei film, dell’”uomo nero” che spaventa i bambini piccoli. È un colore associato al male, alla parte oscura della realtà .
Proprio per questo, però, in molti casi è in grado di “rendere un servizio di simpatia” a chi lo usa nelle storie: la “tragica grandezza” dei cattivi nei film e nella narrazione in generale ne sono un esempio. Darth Vader in Guerre Stellari rimane nella memoria più del protagonista Ian Solo. E poi Il “Corsaro Nero”, “Macchia Nera”, e si può continuare a lungo.
Perché l’arancione, colore sgargiante e meno culturalmente connotato, risulta in qualche modo “debole” rispetto al nero. Oltre a questo, l’arancione è un colore solare, spesso associato in Occidente ai clown, al divertimento, alla frivolezza, all’intrattenimento, che probabilmente è esattamente uno dei modi in cui lo Stato Islamico vorrebbe rappresentare l’Occidente, composto da persone deboli, frivole, dedite a cose inutili, ecc.
La personalità della vittima e l’impersonalità del carnefice. La vittima ha il volto scoperto, viene messa al centro dell’attenzione visiva, e deve risultare una persona, al di là di essere categorizzata dal nostro cervello come “prigioniero” o “condannato” dell’IS.
La personalità della vittima e l’impersonalità del carnefice. La vittima ha il volto scoperto, viene messa al centro dell’attenzione visiva, e deve risultare una persona, al di là di essere categorizzata dal nostro cervello come “prigioniero” o “condannato” dell’IS.
È il simbolo di un gruppo, di un marchio, di una organizzazione e tale deve essere, nella mente di chi ha studiato la “regia” di queste immagini. La vittima non appare collegata a nulla o nessuno, è sola e senza speranza; il carnefice invece risulta “in gruppo”, anche quando appare da solo nel video: è chiaro che rimanda a una regia, appunto, ed è chiaro il suo legame con chi sta girando il video (che noi non vediamo, ma percepiamo come esistente per forza).
Anche qui, il messaggio arriva in modo non consapevole ed è: “tra una persona che agisce in gruppo e in modo organizzato, e una persona che è sola, senza legami o appigli, chi è il più forte?” Il nostro cervello non ha dubbi nel rispondere a una domanda del genere, e lo fa certamente, imprimendo questo messaggio nel nostro cervello di spettatori.
Questo passa attraverso la qualità delle immagini e dell’audio, attraverso le forme di diffusione dei video, attraverso il montaggio “cinematografico”, attraverso il ritorno di elementi comuni nei vari “spot” che lasciano intendere, come un dato di fatto, che esista una “regia” del tutto, una pianificazione e una organizzazione complessa. Queste sono le caratteristiche che lo Stato Islamico vuole vengano associate al suo “brand”, e queste sono le caratteristiche che rimangono nella mente a noi spettatori, in quella “polverina comunicativa” confusa che ci resta al termine della visione.
Queste caratteristiche il nostro cervello le ha rilevate. Inconsapevolmente, certo, ma proprio per questo con una grande forza di messaggio.
Questa campagna funziona? Dipende dagli obiettivi. Se l’obiettivo è convincere l’opinione pubblica occidentale della bontà delle ragioni di chi ha girato questi video, ovviamente no.
Questa campagna funziona? Dipende dagli obiettivi. Se l’obiettivo è convincere l’opinione pubblica occidentale della bontà delle ragioni di chi ha girato questi video, ovviamente no.
Se l’obiettivo invece è reclutare attivisti o “foreign fighters” in Occidente, dipende. Anche in questo caso le probabilità che lo spettatore occidentale medio si faccia coinvolgere sono prossime allo zero, però a volte, quando si parla di risultati pratici e concreti, un risultato prossimo allo zero può anche essere un buon risultato.
Ovvero, anche ottenere con questa campagna percentuali di simpatizzanti o attivisti prossime allo zero, potrebbe rappresentare un guadagno netto per lo Stato Islamico e valere il costo dell’investimento (che in questo caso, oltre al costo organizzativo, economico, umano, è un costo in termini di nemici: per ottenere qualche simpatizzante/attivista, quanti nemici mi sono fatto?).
Oltretutto, forse, anche il fatto di crearsi nemici potrebbe essere uno degli obiettivi. “Molti nemici molto onore”, diceva qualcuno. E l’onore, in questo caso, è sinonimo di visibilità e attenzione, che sono altri obiettivi della campagna.
Questa campagna crea visibilità e attenzione? Ovviamente sì, il brand è sicuramente emerso nel panorama comunicativo dei nostri media, e si fa notare. Però questo è vero all’inizio. Poi molto meno.
L’abitudine porta questi messaggi verso l’irrilevanza. “Una assuefazione narcotizzante” che si può superare solo elevando sempre di più la soglia. Ma non è facile alzare l’asticella: perché non basta aumentare la crudeltà specifica del gesto, o il numero dei morti.
Un livello di crudeltà più alto, infatti, aumenta il tasso di rifiuto del messaggio da parte del nostro cervello. Molti morti, a livello di empatia, diventano “nessun morto”, e quindi non scioccano di più, bensì di meno.
In realtà , chi organizza la campagna di questo è consapevole: lo provano i video realizzati allo scopo di rendere “umani” e “veri” (cioè “empatizzabili”) i prigionieri, intervistati come in una sorta di reality show. Non “numeri”, non facce senza identità , ma persone, questo l’obiettivo di quei video: recuperare la vicinanza umana tra la vittima e l’audience, senza la quale il messaggio perde tutta la sua forza.
Ma l’effetto, in questo caso, non pare raggiunto. E l’intera campagna dell’IS sempre di più sembra mostrare “numeri”, ai nostri occhi, non persone realmente empatizzabili da parte dell’opinione pubblica occidentale. Dove sempre più spesso ci sarà qualcuno che dirà con sufficienza, di fronte a un nuovo video: “toh, guarda, ce n’è un altro”.
* Sociologo dell’Università di Udine, si occupa di comunicazione, processi culturali e negoziazione
Foto in alto:http://www.festivaldelgiornalismo.com
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