Come ripensare oggi crisi e patologie sociali?

mag 30, 2015 0 comments
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Di Rahel Jaeggi

Introduzione
«Ancora un altro lavoro sull’alienazione?».[1] In questo modo, o in modo simile, cominciavano ancora all’inizio degli anni Ottanta molti libri, a cospetto della sovrabbondante letteratura secondaria sul tema. Oggi la situazione è mutata. Il concetto di alienazione sembra essere divenuto problematico e sotto certi aspetti anche inattuale. Se esso è stato per lungo tempo il concetto centrale della critica sociale di sinistra (ma anche di quella conservatrice) – un motivo cruciale della filosofia sociale marxista e quindi di importanza fondamentale per il «marxismo occidentale» e per la «teoria critica» – e se allo stesso tempo esso ha influenzato in vari modi la critica della cultura ispirata dall’esistenzialismo, oggi non solo esso è pressoché sparito dalla letteratura filosofica, ma non gioca più alcun ruolo neanche come vocabolo usato per una diagnosi del nostro tempo. Il concetto di alienazione ha avuto un uso troppo inflazionato negli anni del suo boom; i suoi fondamenti filosofici sembrano fuori moda nell’età postmoderna; le sue implicazioni politiche appaiono troppo problematiche nell’età del «liberalismo politico» – e forse anche le aspirazioni della critica dell’alienazione appaiono senza speranza nel tempo del capitalismo trionfante.
In ogni caso, il problema dell’alienazione sembra essere sempre – e forse oggi di nuovo – attuale. Di fronte ai recenti sviluppi economici e sociali si assiste a una crescente inquietudine che, se non nel nome quanto meno nella sostanza, ha a che fare con il fenomeno dell’alienazione. La vasta ricezione che ha ottenuto il libro di Richard SennetL’uomo flessibile con la sua tesi sul «capitalismo flessibile» che minaccia l’identità dei singoli e la tenuta della società, le preoccupazioni sempre più forti riguardo le tendenze alla mercificazione o alla «commercializzazione» di ambiti di vita sempre più estesi,[2]e anche i nuovi movimenti di protesta sorti contro la perdita di controllo e l’impotenza di fronte all’economia globalizzata,[3] sono tutti segni di una rinata sensibilità nei confronti di fenomeni che le teorie prima menzionate descrivevano con i concetti di «alienazione» e di «reificazione». E sebbene nel «nuovo spirito del capitalismo»[4] la critica dell’alienazione sembri essere superata in modo cinico – le richieste rivolte al moderno «lavoratore-imprenditore», flessibile e creativo, per il quale non esiste più alcun confine tra lavoro e tempo libero, non sono forse una realizzazione dell’utopia di Marx dello «sviluppo onnilaterale» dell’uomo che «di mattina può pescare, di pomeriggio cacciare e la sera dedicarsi alla critica»? –, le ambivalenze di simili sviluppi sono il segno della persistenza del problema, più che della sua scomparsa.[5]
Non c’è dunque più l’alienazione o semplicemente non disponiamo più del suo concetto? Di fronte alla tensione, che si rinnova continuamente, tra rivendicazione e realtà, tra promesse sociali di autodeterminazione e di autorealizzazione e la loro mancata attuazione, il tema dell’alienazione – questa la diagnosi di Robert Misik –[6]rimane decisivo, anche se una stabile fondazione della critica dell’alienazione sembra essere andata perduta.
Il presente studio ha lo scopo di far rivivere il concetto di alienazione in quanto concetto fondamentale per la filosofia sociale. Il mio punto di partenza è duplice: da una parte sono convinta che il concetto di alienazione sia ricco di contenuto e produttivo, capace di dischiudere ambiti fenomenici che possono essere ignorati solo al prezzo di impoverire le possibilità di espressione e di interpretazione teorica. D’altra parte la tradizione con la quale il concetto di alienazione è associato non può essere semplicemente ripresa in modo irriflesso, dal momento che i presupposti di questa tradizione sono stati giustamente messi in questione. Per tale ragione ogni ulteriore discussione sull’alienazione richiede una ricostruzione critica dei suoi fondamenti concettuali.
Questo libro è un tentativo di realizzare una simile ricostruzione. Esso è unaricostruzione in un duplice significato: in primo luogo mira a far rivivere in generale il concetto di alienazione nel suo significato; in secondo luogo, lo vuole reinterpretare etrasformare concettualmente alla luce dei problemi che ho menzionato. Il progetto del libro, in altre parole, è quello di riappropriarsi filosoficamente di un teorema che per molte ragioni è divenuto problematico – ed è un tentativo di riscoprire il suo contenuto di esperienza.[7]
(...)
A stranger in the world that he himself has made – Il concetto e il fenomeno dell’alienazione
Il concetto di alienazione rinvia a tutta una serie di motivi tra loro interconnessi. Alienazione significa indifferenza e scissione, ma anche mancanza di potere e assenza di relazione nei confronti di se stessi e di un mondo esperito come indifferente ed estraneo. L’alienazione è l’incapacità di porsi in relazione con altri esseri umani, cose, istituzioni sociali e anche – questa è l’intuizione fondamentale della teoria dell’alienazione – con se stessi. Un mondo alienato si presenta all’individuo privo di senso e di significato, come un mondo irrigidito o impoverito, che non è il proprio, in cui non si è «a casa» o sul quale non si può esercitare alcun influsso. Il soggetto alienato diventa estraneo a se stesso, si esperisce non più come un «soggetto attivo ed effettivo», ma come «un oggetto passivo»,[8] alla mercé di forze sconosciute. Si può parlare di alienazione «laddove gli individui non si ritrovano nelle proprie azioni»[9] o laddove noi non possiamo essere «padroni dei poteri che noi stessi siamo» (Heidegger). L’alienato è quindi – così il primo Alasdair MacIntyre – «a stranger in the world that he himself has made». [10]

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