Il pensiero del filosofo,etnologo e storico delle religioni Ernesto De Martino:tra indagine sul mondo magico e l'etnocentrismo critico

lug 23, 2015 0 comments
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Di Diego Fusaro

1. La critica allo “storicismo pigro”.

“Il mondo magico costituisce un eccellente agone in cui il pensiero storicistico può cimentare se stesso, e conquistare combattendo più larga coscienza delle proprie possibilità e delle proprie virtù”[1].

Due sono i punti nodali della riflessione che Ernesto de Martino svolge ne Il mondo magico sui quali soffermeremo la nostra attenzione: la polemica condotta contro lo “storicismo pigro”, incapace di aprirsi alla comprensione di ciò che è situato oltre i confini della civiltà occidentale, e il tema della “presenza” nel “mondo magico”.






 Si tratta di due temi strettamente connessi, che, nel loro richiamarsi reciproco, vengono da de Martino costantemente intrecciati, con la conseguenza che non è possibile affrontare l’uno senza occuparsi anche dell’altro. Li analizzeremo anche alla luce delle riflessioni successive che su di essi De Martino svolge nei frammenti sparsi poi editi con il titolo La fine del mondo. E soprattutto in riferimento a questo scritto, inoltre, sfioreremo, seppur solo tangenzialmente, il problema del rapporto intrattenuto da De Martino col marxismo.
Per potersi addentrare nel vivo della polemica demartiniana contro il metodo occidentale di porsi verso le altre culture, occorre prendere le mosse dalla prima delle due prefazioni con cui si apre Il mondo magico: in essa, l’autore mette in luce come il compito fondamentale dell’etnologia storicistica, già tratteggiato in Naturalismo e storicismo, consista nella “possibilità di porre  problemi la cui soluzione conduca all’allargamento dell’autocoscienza della nostra civiltà”[2]; a questo ambizioso obiettivo si oppone lo storicismo di Benedetto Croce e dei suoi discepoli, ai quali de Martino imputa l’aggravante di aver preferito elaborare una sorta di “scolastica” crociana, volta a sistematizzare l’idealismo del filosofo napoletano, anziché cercarne sviluppi verso nuove e più alte direzioni. Il loro “storicismo pigro”[3] e “sermoneggiante”[4], dogmatico e intento a tramutare ogni verità in verità spirituale e statica, è assolutamente incapace di guardare al di là della civiltà occidentale, nei cui confini resta imprigionato. Croce stesso, dopo aver fatto valere l’identità tra storia e filosofia all’interno del proprio sistema, aveva prospettato un’immagine della storia dai confini troppo angusti: infatti, intendendola come lo “sfondo omogeneo su cui si stagliano le battaglie che uno Spirito uno e identico combatte attraverso le sue quattro forme”[5], egli l’aveva di fatto identificata con la storia della cultura occidentale, nella convinzione che al di là di essa non si desse storia. È, non a caso, proprio nelle pagine de Il mondo magico che si consuma la frattura demartiniana con la filosofia di Croce, di cui fino ad allora s’era considerato allievo. Allo storicismo crociano, de Martino oppone quello “storicismo eroico”[6] che, rigettando l’inerzia su cui riposava quello dei Crociani, si concentra eminentemente sul “fare” e sul “plasmare” propri dell’uomo, assumendo ogni “incompreso” e ogni “immediato” come spunti di confronto e di allargamento della consapevolezza storiografica.
Uno storicismo di questo genere, che alla staticità preferisce l’attività e il progredire, deve misurarsi col mondo magico: e non in maniera fine a se stessa, bensì per ampliarsi e per prendere coscienza dei propri limiti. È per questa ragione che, ne Il mondo magico, de Martino intreccia senza posa i due momenti dell’analisi del mondo magico e dello studio del modo occidentale di porsi nei confronti di quel mondo. E, in realtà, è soprattutto intorno al secondo dei problemi che orbita l’interesse del filosofo napoletano. Benché in tutta l’opera l’espressione non compaia neppure una volta, de Martino ha già almeno in parte fatta sua quella prospettiva che, negli scritti successivi e ne La fine del mondo, qualificherà con l’etichetta di “etnocentrismo critico”, contrapponendolo tanto all’irrazionalismo quanto al relativismo: in opposizione a quanti, come Croce e Hegel, propugnano un’assoluta superiorità della civiltà occidentale, superiorità in forza della quale il confronto con le altre culture sarebbe inutile e ozioso, e a quanti liquidano sbrigativamente il problema ponendo sullo stesso piano tutte le culture, de Martino è fermamente convinto della grandezza della civiltà occidentale ma al tempo stesso ritiene che tale grandezza si manifesti nella capacità di tale civiltà, l’unica a possederla, di spingersi al di là delle proprie colonne d’Ercole, aprendosi al confronto con le altre civiltà. Come sottolinea acutamente Cesare Cases, nell’ottica demartiniana la civiltà occidentale “non può inverarsi se non negandosi”. Se volgiamo lo sguardo a La fine del mondo, tra le molteplici definizioni di “etnocentrismo critico” che possiamo rinvenire, ve n’è una che chiarisce in maniera particolarmente esaustiva, oltre che icastica, il concetto: de Martino asserisce che l’etnocentrismo critico è l’atteggiamento di chi “pone in causa il proprio etnos nel confronto con gli altri etne”[7] e “si apre alla prospettiva di un umanesimo molto più ampio di quello tradizionale”[8], che il nostro autore, ne Il mondo magico, aveva qualificato come “umanesimo ristretto” perché limitato alla cultura occidentale. L’etnocentrismo è inevitabile – precisa de Martino ne La fine del mondo – nella misura in cui il giudizio che noi occidentali formuliamo intorno alle culture extraoccidentali “non può non essere etnocentrico”[9], ossia fondato su categorie elaborate all’interno della nostra civiltà; ma deve essere critico, ossia non dogmatico e consapevole della limitatezza strutturale del proprio giudizio. In particolare, la presa di coscienza dell’inevitabilità dell’etnocentrismo non dev’essere assunta come la prova dell’impossibilità né della comunicazione tra culture intese come organismi chiusi (Oswald Spengler) né dell’allargamento dei confini dell’umanesimo: a ciò si oppone infatti il “postulato della comune umanità”[10] in base al quale, a prescindere dalle etnie di appartenenza, siamo tutti ugualmente uomini. Questo, che ai tempi de Il mondo magico è un motivo che innerva il pensiero demartiniano in maniera, per così dire, sotterranea e priva di una formulazione sistematica, è diventato ne La fine del mondo un metodo programmatico e consapevole di sé. 
Nella prospettiva dell’“etnocentrismo critico”, lo studio del mondo magico è simile allo studio dell’umanità classica condotto dagli Umanisti, il cui ritorno ai “classici” mediò la scoperta di un’umanità più profonda: “il nostro ritorno al magico deve mediare il progresso dell’autocoscienza della cultura occidentale”[11], affinché essa esca fuori di sé non per negarsi ma piuttosto per fare ritorno in se stessa arricchita e, hegelianamente, aufgehoben, “innalzata” in virtù del confronto con l’alterità delle culture non occidentali. Sempre nella prefazione a Il mondo magico, de Martino spiega come il metodo dello “storicismo eroico” che intende seguire sia scandito in due momenti: in prima battuta, si muove dalla “angustia di una Einstellung culturale non consapevole di sé”[12], incapace di affrontare il problema del mondo magico in modo adeguato; in un secondo momento, dopo aver fatto scricchiolare i pregiudizi sul mondo magico dei quali si sostanzia la cultura occidentale, lo storicista eroico “acquista coscienza dei limiti del proprio orizzonte storiografico”[13] e si sottopone ad analisi non solo il mondo magico, ma anche il modo occidentale di accostarsi a esso, smascherandone uno dopo l’altro i vizi interpretativi.
In particolare, il presupposto acritico col quale la cultura occidentale (e de Martino fa anche nomi e cognomi dei destinatari della sua critica, tra i quali spiccano Lehmann, Frazer, Clodd, Lang, Lévy-Bruhl) si accosta al “problema dei poteri magici” consiste, paradossalmente, nel non porsi neppure il problema, dando già per scontata l’irrealtà dei poteri magici: e ciò non deve stupire, alla luce del fatto che le categorie scientifiche tramite le quali opera la nostra cultura presuppongono inevitabilmente una natura “purificata da tutte le ‘proiezioni’ psichiche della magia”[14], in opposizione alle quali è sorta la stessa scienza moderna. Infatti, la pretesa fondamentale avanzata dalla magia – la sospensione delle leggi di natura al fine di operare in essa a vantaggio dei singoli individui empirici – è in se stessa la negazionetout court dell’assunto su cui poggia la scienza. Dunque, “proprio la resistenza ad accettare il problema deve diventare a sua volta un problema per il pensiero”[15].                  
Sicché, dall’iniziale critica indirizzata allo storicismo, de Martino approda a una più ampia critica del metodo con cui la cultura occidentale interpreta le altre, costringendole entro i suoi schemi e, in ciò, compiendo una vera e propria “violenza”[16] che la rende imputabile di un etnocentrismo che è acritico in misura non inferiore a quello dei popoli primitivi che non riconoscono altra cultura all’infuori della propria. Accostandoci al mondo magico con le nostre categorie interpretative, che si sono storicamente sviluppate in opposizione a quel mondo, non possiamo che travisarlo, o negando la realtà dei poteri magici – liquidati alla stregua di meri errori frutto di una “struttura mentale” – o, nella migliore delle ipotesi, ammettendoli ma nel quadro della nostra natura, come fenomeni dati all’interno della legalità della natura. Nel primo come nel secondo caso, si assolutizza la cultura occidentale e la si immagina anacronisticamente già valida nel passato del mondo magico, come se quegli uomini da noi così distanti fossero vissuti nella nostra stessa epoca senza però raggiungere il nostro grado di cultura. Si tratterà allora di far valere il punto di vista dell’“etnocentrismo critico”, che alla domanda “esistono i poteri magici?” non risponde in maniera scontata e arrogante con un “no”, ma distingue tra la loro irrealtà nel nostro mondo culturale e la loro realtà nel mondo magico, alla luce dei diversi concetti di realtà che animano le due diverse epoche storiche. Spetta a noi moderni interrogarci sul senso del mondo magico, che naturalmente sfuggiva ai suoi attori: in questo senso, il motto di Croce secondo cui “ogni storia è storia contemporanea”, è valido anche per De Martino, a patto che lo si concepisca come uno sforzo immane per recuperare un mondo tramontato e, rispetto al quale, il nostro è, per così dire, un capovolgimento.   



2. Il tema della presenza. 

“L’uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l’apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’. L’anima andrebbe facilmente ‘perduta’ se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell’annientamento della presenza”[17].  





La “violenza” del modo occidentale di accostarsi al “mondo magico” risulta evidente soprattutto se si considera quello che de Martino definisce il “dramma della presenza”, concetto che segna il suo avvicinamento all’esistenzialismo heideggeriano (ancorché si tratti, come rileva Cases, di un esistenzialismo visto “da un’angolazione idealistica”[18]): sono infatti mutuate da Martin Heidegger le nozioni di “esserci” (Dasein), inteso non jaspersianamente come l’insieme delle cose presenti nel mondo, bensì come lo specifico essere al mondo proprio dell’uomo, e di “presenza” (Vorhandenheit), concepita come l’“essere alla mano” delle cose nel senso della loro “utilizzabilità” (Zuhandenheit).  Di queste due nozioni, de Martino fornisce una declinazione molto specifica e, a tratti, polemica verso Heidegger. In quell’epoca dai contorni ben definiti che è il “mondo magico”, l’esserci nel mondo non è certo né garantito, ma è piuttosto “una realtà condenda”[19], sempre esposta al rischio della labilità e dell’annullamento, a cimenti tremendi che “possono mettere a dura prova la resistenza del ‘ci sono’”[20], al pericolo di perdere l’anima e di non esserci più. Esattamente in questo risiede il “dramma storico” che caratterizza il mondo magico. E la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci è l’angoscia che accompagna sempre e di nuovo l’uomo di quel mondo. A questa prospettiva erano approdati anche i cosiddetti “irrazionalisti” (Lévy-Bruhl, Klages, Dacqué), che però ad essa si erano arrestati, senza accorgersi che il mondo magico è anche percorso dallo sforzo di sottrarsi al rischio di non esserci. In vista di ciò, è la magia a elaborare sempre nuove strategie (guarentigie, compromessi, compensi) per garantire la presenza umana nel mondo, per agire in esso anziché essere agiti daesso. In particolare, sventare il rischio della scomparsa della presenza è compito di quello che de Martino chiama “l’eroe della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone”, il quale vive la dissoluzione e il riscatto della sua presenza anche per gli altri. In questo senso, l’esserci quale appare nella riflessione di de Martino assume l’aspetto di un “dover esserci” il cui orizzonte è tracciato da un limite dinamico e costruito socialmente: non si tratta, dunque, di un limite statico, quale è il Daseinheideggeriano, con il quale de Martino polemizza fortemente ne La fine del mondo[21], quando afferma che “il fondamento dell’umana esistenza non è l’essere ma il dover essere”[22] contro il rischio di non essere più. La polemica anti-heideggeriana era già presente ne Il mondo magico, là dove de Martino metteva in luce come, in opposizione alla prospettiva heideggeriana, secondo la quale il Dasein trova sempre e universalmente[23] dinanzi a sé un oggetto stabile e l’angoscia sorge dal timore di perderlo, nel “mondo magico” la presenza è qualcosa di incerto, che deve essere continuamente fondato. Questa concezione della presenza è antitetica rispetto a quella della cultura occidentale, per la quale l’“io” è un dato che cade al di là di ogni possibile dubbio: dai Greci in poi, passando per il Cristianesimo, siamo abituati a considerare la presenza come l’esserci elementare, fondato e condizionato dal principio – tematizzato da Immanuel Kant – dell’atto della funzione sintetica trascendentale: così intesa, la presenza si mantiene in quanto capace di trascendere, attraverso l’atto, qualsiasi contenuto esistenziale, qualsiasi accadimento emozionale della vita individuale o collettiva. A differenza di noi, che riportiamo immediatamente tutte le nostre percezioni a un “io” trascendentale e stabile, gli uomini del mondo magico non operano tale sintesi e per loro, in forza di questo mancato riferimento a un’unità, i contenuti esperienziali diventano pericolosi per la presenza, in quanto caotici e disordinati, e devono dunque essere disciplinati attraverso la magia. In particolare, la crisi è plasmata e controllata attraverso la ripetizione di gesti e tecniche che costituiscono il patrimonio collettivo e storico del “così si fa”, nel quale sembra affiorare la categoria heideggeriana dell’anonima indeterminatezza del man; come del resto a Heidegger rimandano le nozioni di “deiezione”[24] (il Verfallen heideggeriano) e di “carattere fattizio”[25] (la Faktizität heideggeriana).
Si tratta però di sfuggire alle secche in cui s’è arenata buona parte della ricerca degli “irrazionalisti”, i quali hanno surrettiziamente inteso come equivalenti l’antica magia e la moderna schizofrenia: è senz’altro vero che lo schizofrenico, non meno dell’uomo del mondo magico, avverte costantemente in pericolo il proprio esserci e si adopera per scongiurare tale rischio; tuttavia, a differenza della magia antica, che rientra a pieno titolo in una “storicità autentica” e che cementa la comunità riaffermando la presenza, la schizofrenia è una “caduta dal piano storico-culturale” che isola l’individuo in una sorta di crisi irrecuperabile in cui non si fa ricorso a tecniche magiche.
Ora l’inossidabile pregiudizio che vizia l’approccio occidentale al mondo magico è quello di aver assolutizzato, come se fosse l’unica possibile, la propria concezione della presenza intesa come un qualcosa di certo e fondata sulla nozione cristiana di persona: per questa ragione, se le credenze e i riti dell’uomo del mondo magico ci paiono superstiziosi, “ciò accade perché indebitamente (antistoricamente) le commisuriamo al ‘ci sono’ deciso e garantito del nostro mondo culturale”[26].
Le nostre categorie storiche sono del tutto inadatte per comprendere un mondo storico entro il quale l’individuazione è ancora un compito che esprime il dramma della presenza: non c’è allora da meravigliarsi che la nostra cultura non abbia affatto colto il dramma proprio di quel mondo e abbia visto in esso, come nel caso paradigmatico di Adolfo Omodeo, soltanto un negativo di cui non si dà storia. de Martino, ne Il mondo magico, è convinto che il “mondo magico” corrisponda a una precisa epoca storica, che ci siamo irrimediabilmente lasciati alle spalle. Più precisamente, quel mondo scompare quando la crisi della presenza non è più problema primario nell’esistenza individuale e collettiva, perché la presenza è ormai stata fissata, consolidata, garantita. I limiti di questa prospettiva sono messi in evidenza da Enzo Paci[27], il quale argomenta in favore dell’eternità del magico, presente in ogni epoca storica alla stregua dell’arte o della morale: anche in virtù di questa critica, ne La fine del mondo il mondo magico perde il suo carattere storico e diventa qualcosa di “eterno”, che può essere ascritto nella più generale Weltuntergangserlebnis[28], ossia nell’“esperienza di fine del mondo” dinanzi alla quale l’uomo si mobilita per salvare il proprio esserci. Ciò non di meno, de Martino mantiene saldamente la distinzione tra schizofrenia e pratiche magiche. Lo stesso esistenzialismo heideggeriano è, ne La fine del mondo, largamente presente, integrato con quello “positivo” di Nicola Abbagnano e con quello sartreano, anche in forza dell’avvenuto avvicinamento demartiniano al marxismo. Anche Karl Jaspers, il grande assente de Il mondo magico, è ora un interlocutore privilegiato di de Martino, anche se in veste di psicologo più che di filosofo dell’esistenza. Affiora anche il tema di una presenza che è avvertita come a rischio oggi non meno di duemila anni fa: venendo meno in De Martino la storicità del mondo magico, il rischio della presenza è esteso all’intero arco storico ed è concepito nei termini dell’esistenzialismo sotto forma di fine del mondo. In questo senso, la “fine del mondo” a cui fa ora riferimento de Martino è una riproposizione della “crisi della presenza” di cui aveva parlato ne Il mondo magico. L’uomo quale lo intende il nostro autore nei frammenti de La fine del mondo, contrassegnato da una finitudine costitutiva, è un esserci radicato in una  “situazionalità” inaggirabile ed è in costante trascendimento rispetto a una realtà massiccia e, insieme, opaca: come aveva insegnato Sartre ne L’essere e il nulla, la coscienza umana è costantemente impegnata ad opporsi alla datità dell’essere nullificandola.












3. La critica di Croce e il marxismo

“La lotta moderna contro ogni forma di alienazione dei prodotti del lavoro umano presuppone come condizione storica l’umana fatica per salvare la base elementare di questa lotta, la presenza che sta garantita nel mondo[29].






In una prima recensione de Il mondo magico, Croce aveva tessuto le lodi dello scritto, qualificandolo encomiasticamente come “ricco nell’informazione, acuto e solido nella dimostrazione e lucido nella esposizione”[30], pur dissentendo dalla convinzione demartiniana secondo cui le categorie con cui si interpreta l’accadere storico, lungi dall’avere un valore assoluto, sarebbero storicamente determinate. Tuttavia, in una seconda e ben più ampia recensione dell’opera, il filosofo napoletano aveva radicalmente mutato giudizio, sottoponendo ad una critica impietosa quell’ammissione demartiniana della storicità delle categorie che, nella prima recensione, era stata rimproverata solo di sfuggita e in maniera benevola. L’errore imperdonabile commesso da de Martino è da Croce ravvisato in un indebito capovolgimento della prospettiva del “vero” storicismo: dimenticandosi che è lo spirito a creare la storia, de Martino ha ammesso l’esatto contrario, facendo dello spirito un qualcosa di creato dalla storia nel suo incessante avanzare. L’aspetto forse più interessante di questa querelle è che Croce, nel formulare la sua condanna del metodo demartiniano, lo accosta alla “prequarantottesca spiritosa invenzione”[31] del marxismo, che, interessato a trasformare il mondo anziché a conoscerlo, ha storicizzato le categorie interpretative: e non esclude che de Martino sia rimasto abbagliato da questa filosofia che lo stesso Giovanni Gentile aveva bollato come “uno dei più sciagurati deviamenti dell’hegelismo”[32]. Sembrerebbe, a tutta prima, un’accusa infondata, alla luce del fatto che De Martino, ne il Mondo magico, non fa ancora professione di marxismo e la sua adesione al partito comunista avverrà solo due anni più tardi, nel 1950. Eppure egli sembra già orientarsi, in qualche misura, con le coordinate fissate da Karl Marx: non solo per quel che concerne la storicizzazione delle categorie interpretative, ma anche e soprattutto per il finale dell’opera, in cui il richiamo a Marx è evidente:

“la lotta moderna contro ogni forma di alienazione dei prodotti del lavoro umano presuppone come condizione storica l’umana fatica per salvare la base elementare di questa lotta, la presenza che sta garantita nel mondo[33].     

Come nel caso dell’“etnocentrismo critico”, anche in quello del marxismo ci troviamo dinanzi a un orizzonte di pensiero già presente sullo sfondo ma che tuttavia non dice ancora il suo nome né ha piena coscienza di sé: spetterà agli scritti successivi dispiegare ciò che ne Il mondo magico è presente ancora in forma embrionale. Ma si tratterà di un dispiegamento tutt’altro che lineare, se si considera che De Martino abbraccerà il marxismo abbandonando però la storicità delle categorie e, in ciò, “riconvertendosi”[34] alla filosofia crociana, con la quale continuerà a intrattenere un rapporto di odi et amo. In particolare, se volgiamo ancora una volta lo sguardo a La fine del mondo, possiamo constatare come de Martino abbia ridotto la distanza siderale che lo separava da Croce ai tempi de Il mondo magico, riassumendo nuovamente l’assolutezza delle categorie, ma al tempo stesso non si identifichi in pieno con le posizioni del suo maestro, nella misura in cui resta fedele al marxismo: certo, un marxismo eterodosso e, se vogliamo, “eretico”, contraddistinto dal rifiuto di quell’“imbarbarimento positivisico”[35] che riduceva ogni esperienza culturale e religiosa a mera emanazione meccanica della struttura economica. Un marxismo che de Martino, certo non insensibile alle suggestioni di Karl Löwith e di Ernst Bloch, rileggeva soprattutto come secolarizzazione di antichi temi religiosi – la speranza nella salvezza finale, il popolo eletto, la lotta tra due princìpi contrapposti – più che come sistema scientifico portatore di certezze incrollabili. Addirittura, un marxismo coniugato col pensiero di Maurice Merleau-Ponty e incentrato sul problema della “immensa responsabilità”[36] dell’uomo.   

Diego Fusaro, 3 novembre 2005


4. Bibliografia


-         B. Croce, Recensione al Mondo magico, in “Quaderni della Critica”, 1948, n.   10, pp. 79 ss; anche presente  in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., pp. 241-253.

-         E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1997.

-          E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977.

-         G. Gentile, La filosofia di Marx, Pisa 1989.

-         M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, 1927; tr. it. Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, a cura di P. Chiodi.

-         K. Jaspers, Philosophie, 1932; tr. it. Filosofia, Mursia, Milano 1972-1978, a cura di U. Galimberti, 3 voll.

-         I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781-1787; tr. it. Critica della ragion pura, Laterza, Roma – Bari 2000.

-         E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino 1950, in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., pp. 254-262.

-         J. P. Sartre, L’être et le néant, Paris 1943; tr. it. L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2002, a cura di G. Del Bo.


NOTE
[1] E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 4.
[2] Ivi, p. 3.
[3] Ivi, p. 4.
[4] Ibidem.
[5] C. Cases, in E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 22.
[6] E. de Martino, Il mondo magico, cit. p. 4.
[7] E. de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977, p. 333.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, p. 394.
[10] Ivi, p. 395.
[11] E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 5.
[12] Ivi, p. 6.
[13] Ibidem.
[14] Ivi, p. 52.
[15] Ivi, p. 22.
[16] Ivi, p. 213.
[17] Ivi, p. 82.
[18] Ivi, p. 29.
[19] Ivi, p. 97.
[20] Ivi, p. 105.
[21] E. de Martino, La fine del mondo, cit., pp. 669 ss.
[22] Ivi, p. 668.
[23] Già Karl Löwith aveva messo in luce come l’esistenza che Heidegger, in Essere e tempo, presenta come universale sia in realtà la specifica esistenza del borghese cristiano del suo tempo.  
[24] E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 160.
[25] Ibidem.
[26] E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 76.
[27] E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Torino 1950, in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., pp. 254-262.
[28] E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 236.
[29] E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 222.
[30] B. Croce, Recensione al Mondo magico, in “Quaderni della Critica”, 1948, n. 10, pp. 79 ss; anche presente  in E. de Martino, Il mondo magico, Appendici, cit., p. 241.
[31] Ivi, p. 243.
[32] G. Gentile, La filosofia di Marx, Pisa 1989.
[33] E. de Martino, Il mondo magico, cit., p. 222.
[34] È Cesare Cases a parlare espressamente di “riconversione”: cfr. E. de Martino, Il mondo magico, Introduzione, cit., p. 34.
[35] E. de Martino, La fine del mondo, cit., p. 431.

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