Self coaching: che cos’è e come metterlo in pratica

ago 31, 2015 0 comments


Di Mario Alberto Catarozzo
1. Coach di se stessi. Si può? Self coaching vuol dire diventare coach di se stessi, diventare, in sostanza i migliori alleati che abbiamo. È possibile il self coaching, oppure è sempre necessario avere un coach esterno? E se sì, quale strada bisogna seguire? È possibile, in sostanza, imparare a supportarci da soli, a migliorare la nostra strategia di pensiero e quindi di azione? La risposta è sì, ma con alcune limitazioni che la mancanza di un supporto esterno (quello del coach) comporta. Da soli è più difficile acquisire consapevolezza sulle proprie convinzioni limitanti e pregiudizi, che spesso dirigono le nostre azioni. Vediamo dunque cosa si può fare con il self coaching e cosa no.





2. Si può migliorare leggendo libri sul coaching? Certamente sì. Il primo effetto benefico nel leggere libri sul self coaching è acquisire conoscenze nuove, venire a sapere di possibilità, strumenti e scenari che prima erano sconosciuti. Quindi dedicarsi ad approfondire il mondo del coaching può essere sicuramente un primo passo per attivare processi di cambiamento, dove tutto parte dal desiderio di apportare novità e dalla conoscenza di strumenti per sapere come fare. Da soli, tuttavia, tutto non si può fare. Va considerato che la presenza di un coach permette un confronto che da soli non abbiamo, rimanendo vittime di pregiudizi e abitudini che, in quanto tali, fatichiamo a vedere.

3. Andare a scuola da se stessi. Imparare da se stessi è una delle cose alla portata di ciascuno, ma all’atto pratico pare non semplicissima. La cultura familiare, scolastica e sociale in cui siamo cresciuti ci ha abituato a giudicarci, invece di imparare dagli errori. Così facendo impediamo a noi stessi di considerare gli errori come le migliori esperienze da cui trarre insegnamento. Se faccio un incontro disastroso con un cliente, io avrò due possibilità: la prima, di giudicarmi dicendomi (c.d. dialogo interno) che sono stato un incapace e un deficiente; la seconda, invece, girarmi sull’esperienza fatta e mapparla, cercare quindi di comprenderne la dinamica, in modo da poter capire dove ho sbagliato e formulare un nuovo piano di azione per la prossima volta, dove farò tesoro degli errori per migliorare. In sostanza, dovrò andare a scuola dalla mia stessa vita.

4. La c.d. “tecnica dell’inventore”. L’atteggiamento di non giudicare i propri comportamenti, ma di apprendere da essi come la miglior scuola a disposizione, è tipica degli inventori. Pensate a Tesla, Marconi, Edison quante centinaia, migliaia di volte hanno fallito prima di riuscire ciascuno nella propria impresa? Tuttavia non si sono persi d’animo ed hanno considerato ogni tentativo fallito come una esperienza che insegnava qualcosa, da cui ripartire come un gradino successivo per il prossimo tentativo. La tecnica dell’inventore si può applicare al self coaching. Basta prendere un diario da compilare ogni sera e per iscritto chiedersi nell’arco della giornata quali attività abbiamo svolto con soddisfazione, dove ci siamo piaciuti, dove siamo migliorati, cosa abbiamo messo in pratica di ciò che ci eravamo proposti (feedback positivo) e poi indicare cosa non è andato per il verso giusto (feedback di miglioramento), come mai, cosa impariamo da ciò e cosa possiamo, alla luce dell’esperienza fatta, cambiare la prossima volta.

5. Introdurre la “possibilità” nel nostro mondo. Altro aspetto che si può coltivare con il self coaching è il miglioramento del dialogo interno, cioè di quella vocina mentale con cui tutti noi ci parliamo. Spesso non facciamo cose nuove perché non ci vengono in mente, oppure perché le consideriamo “impossibili”. Sempre la cultura in cui mediamente siamo cresciuti, ci ha insegnato a seguire le strade già tracciate, ad andare sul sicuro. L’idea del "possibile" non entra come dovrebbe nella nostra vita e quindi già da lì tendiamo a limitare le nostre azioni. Alleniamoci a chiederci: "è possibile pensare che…", "posso immaginare che….", "cosa mi dice che non posso." etc.

6. Lavorare come criceti. Con il self coaching è possibile inoltre allenare una nuova mentalità che ci porta, come abbiamo appena visto, a non ripetere all’infinito (come un criceto appunto) sempre gli stessi comportamenti, ma a tentare nuove strade alla luce delle pregresse esperienze. Moti di noi vivono proprio come un criceto in una ruota: pensano sempre allo stesso modo, mettono in atto gli stessi comportamenti, hanno gli stessi risultati, si lamentano, ma non fanno nulla per introdurre cambiamenti. Il coaching insegna un modello che si chiama T.O.T.E. (Test Operation Test Exit), che permette di interrompere questo meccanismo, attraverso la mappatura una situazione prima di agire, la definizione di un piano di azione e la verifica dell’efficacia, con conseguenti modifiche.

7. Nutrire l’autostima. Tipico dell’essere umano è abituarsi ai cambiamenti e "inglobarli". Solo chi ha un figlio, per esempio, affronterà in un certo momento l’idea che anche lui un tempo non sapeva leggere o scrivere. Tutti gli altri danno per scontato saperlo fare. Ecco, con lo stesso meccanismo, ogni qual volta introduciamo un cambiamento, questo diventa parte di noi, come se avessimo sempre saputo fare quella cosa. Ciò porta a non avere piena consapevolezza dei risultati raggiunti. Di conseguenza molte nostre risorse, molti risultati, passano in sordina, come cose scontate. L’autostima non può che risentirne, abituati come siamo a focalizzarci più sul difetto e sulla mancanza, che non sui pregi o sui successi raggiunti. Anzi, spesso entra in gioco anche la scaramanzia a complicare le cose. Ci hanno allenato a vivere sotto tono, a non credere in noi stessi, a non valorizzarci come meriteremmo. Ecco, questo è un altro aspetto su cui il self coaching può lavorare: riscoprire il proprio valore.

8. Dove è difficile intervenire con il self coaching. Partiamo dalla premessa che nel coaching si lavora prevalentemente con le domande (c.d. domande di qualità o domande potenti), che hanno la funzione di mettere in moto processi di consapevolezza e quindi di cambiamento. Nella relazione di partnership tra coach e coachee, uno dei compiti del coach è di proporre al coachee un nuovo approccio da cui guardare le cose. Il coach in tal senso funge da “terzo occhio” nella relazione. Una delle maggiori difficoltà che tutti incontriamo nel tentativo di cambiare atteggiamenti e modi di comportarsi per raggiungere i nostri obiettivi è che non ci accorgiamo di come ci comportiamo (dandolo per scontato) e che non riusciamo ad immaginare nuove possibilità, nuove modalità, nuovi scenari. Per questo ci incaponiamo a ripetere ciò che conosciamo, ciò su cui ci siamo allenati: l'abitudine. Nel self coaching superare questo è possibile, ma molto difficile, perché da soli non si riesce ad uscire dai propri schemi, salvo che vi siano situazioni "traumatiche" o comunque insolite che ci spingano a farlo.

9. Tenere forte il timone. Un altro aspetto che nel self coaching si perde è la relazione di supporto emotivo con il coach. Per attivare cambiamenti, superare abitudini e introdurne di nuove, è necessario allenarsi e continuare a farlo. È come con la forma fisica in palestra: possiamo aver capito benissimo come svolgere gli esercizi, ma se non li facciamo con costanza non vedremo i risultati. Chi si avvicina al coaching spesso lo fa da un punto di vista teorico, cognitivo. Legge libri, guarda video, si informa. Ma non basta. Il coaching non è teoria, è azione. Senza azione non ci sono cambiamenti. E non basta fare una volta, bisogna continuare a fare. Da soli si può fare, ma la determinazione da mettere in campo deve essere decisamente alta. È tipico sentire i miei coachee dirmi che "non sempre è facile", "che hanno fatto un passo indietro", oppure chiedere conforto di essere sulla strada giusta. Questo, nel self coaching, necessariamente manca.

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