Il dilemma del dollaro nell’era dei dazi

ago 1, 2025 0 comments

Di Andrea Muratore

Nel quadro della valutazione degli effetti commerciali delle tariffe daziarie americane, un dato da non sottovalutare è rappresentato dagli impatti sul dollaro statunitense delle politiche commerciali.

L’accordo commerciale di Washington con l’Unione Europea, la Corea del Sud e il Giappone ha ridato vigore al biglietto verde, che solo rispetto all’euro è passata da un cambio di 1,18 a 1,14, guadagnando quasi il 3,5% in una settimana dopo mesi di sostanziale declino che avevano portato al peggior semestre dell’indice della divisa statunitense.

Questo pone importanti discussioni in essere sul futuro economico della superpotenza. E impone di leggere dinamicamente la strategia del presidente Donald Trump: la Casa Bianca.

Dazi e dollaro, equilibrio dinamico

Nell’intersezione tra dazi e dollaro passano dinamiche strategiche.  C’entra la sostenibilità delle tariffe che, come abbiamo visto, gravano soprattutto sul sistema-Paese Usa. Ma c’entra decisamente la questione dirimente del debito pubblico statunitense, che è sia spada di Damocle che pende sulla fragile superpotenza a stelle e strisce ma anche fattore di rilevanza geopolitica perché come ha ricordato sull’Ispi l’economista Giampaolo Galli “il deficit pubblico americano è lo strumento attraverso il quale il mondo si rifornisce di dollari, che sono necessari al funzionamento del commercio mondiale così come per i mercati finanziari”. C’entra anche l’intera architettura della globalizzazione finanziaria americana, che Trump ritiene dover riportare a tutto vantaggio degli Usa.

The Donald idealmente, sperava in un contesto in cui sulla scorta dei dazi si sarebbero spostate risorse dall’equity azionario al debito americano, reso più conveniente e meno costoso, un relativo calo del biglietto verde avrebbe svalutato le passività Usa esistenti, favorito un taglio dei tassi della Federal Reserve e, assieme ai proventi da tariffe, alimentato la sostenibilità del bilancio per garantire spazio fiscale a manovre come lo One Big Beautiful Bill che creerà grandi passività di bilancio. La realtà ha visto, invece, un indebolimento del dollaro unito però a un problema di sostenibilità del debito mentre, invece, le borse correvano in controtendenza col clima di tensione dei dazi.

Nella fase iniziale della partita daziaria, dunque, gli Usa hanno avuto un dollaro in indebolimento nel contesto di un crescente indebitamento e di una sostanziale incertezza geoeconomica globale. Dopo la strutturazione dell’offensiva mondiale di Trump e il superamento della soglia di agosto, il dollaro è in recupero sulle altre valute globali col fine di compensare l’effetto penalizzante per le imprese e i consumatori americani delle imposizioni tariffarie. Questo può rendere meno appetibile l’export Usa e dunque l’obiettivo americano di compensare i grandi deficit commerciali con molti partner. Ma risponde a un dato chiaro: l’equilibrio intrinseco del sistema globale continua a fondarsi sui dollari e l’emersione di elementi che stabilizzano il biglietto verde come gli accordi con l’Ue invita gli investitori a fare scelte chiare nella direzione dell’investimento sulla divisa a stelle e strisce.

Il fantasma del “male olandese” sul dollaro Usa

Come ha scritto sul Financial Times il ricercatore di Princeton Brendan Greeley, ha ipotizzato che questo è un effetto di quello che per gli Usa può esser definito un vero e proprio fenomeno di “male olandese“. Questo termine si riferisce alla svolta dei Paesi Bassi tra gli Anni Sessanta e Settanta, quando il boom del petrolio e del gas naturale rilanciò l’economia del Paese europeo provocando però una cannibalizzazione degli investimenti industriali, provocando il crollo della manifattura.

“Molti oggi considerano la malattia olandese un fenomeno tipico dei paesi in via di sviluppo, poiché le economie sviluppate tendono a essere diversificate e produttive, con settori manifatturieri ad alto valore aggiunto”, nota Greeley, ma “e consideriamo gli Stati Uniti negli ultimi 25 anni, tuttavia, è possibile considerare il loro deficit delle partite correnti come la loro esportazione più forte e duratura”, dato che l’America ha fatto della fame di dollari del mondo un fattore di egemonia strategica e rafforzamento economico. Neanche Trump può permettersi, nel breve periodo, di cortocircuitare questo dato di fatto che sabota l’obiettivo di fondo della politica daziaria. L’esorbitante privilegio americano diventa anche una trappola. E questo andrà preso in considerazione quando Washington spererà in un dollaro fluttuante e ridimensionato per spingere export e svalutazione delle passività.

FONTE: https://it.insideover.com/economia/il-dilemma-del-dollaro-nellera-dei-dazi.html

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