Su Piazza Fontana sappiamo tutto, o quasi. Malgrado un'infinità di depistaggi

dic 12, 2019 0 comments

Di Andrea Purgatori

Molte teste, e non solo italiane. Molte mani. E un’infinità di depistaggi che per decenni hanno coperto una verità che ormai oggi conosciamo. La bomba di Piazza Fontana – in realtà quel 12 dicembre 1969 gli ordigni piazzati furono cinque, due a Milano e tre a Roma, e il bilancio avrebbe dovuto essere ben più spaventoso dei 17 morti e 88 feriti nella sola Banca Nazionale dell’Agricoltura – fu il parto di un combinato disposto tra istituzioni deviate e terroristi di Ordine Nuovo, tra servizi segreti e neofascisti. Una strage pianificata con l’obiettivo di trascinare il Paese verso un colpo di stato mascherato da una condizione di necessità. Un golpe che avrebbe militarizzato l’Italia, mettendola sotto tutela “atlantica” come già lo erano la Spagna franchista e la Grecia dei colonnelli.
Era tutto pronto e previsto. Le carte da far firmare all’allora presidente del Consiglio, il democristiano Mariano Rumor, per dichiarare lo stato d’emergenza e sospendere ogni garanzia costituzionale. E i colpevoli da consegnare in pasto all’opinione pubblica e sbattere sulle prime pagine dei giornali: gli anarchici. Ma il piano funzionò solo a metà. Perché Rumor, per opportunismo o per paura, si rifiutò di firmare. E si dice che lo fece dopo aver visto la folla di operai, studenti e semplici cittadini che aveva riempito piazza del Duomo nel giorno dei funerali. Una folla muta e composta, ma determinata a non farsi usare né ingannare.
Per quel passo indietro dell’ultimo minuto, Rumor doveva essere punito con la morte. Lo racconta l’ex militante di Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra, che ancora sconta un ergastolo per la strage di Peteano (1972, tre carabinieri uccisi da un’autobomba), al quale i neofascisti avevano dato il compito di ucciderlo nella sua casa di Vicenza, d’accordo con i servizi e la stessa scorta di Rumor. Ma anche quest’operazione fallì, perché Vinciguerra si rese conto che subito dopo l’esecuzione avrebbe fatto la stessa fine del leader democristiano: “La scorta si sarebbe distratta quando sarei entrato, ma non quando sarei uscito”. Così, nella micidiale trappola di Piazza Fontana rimasero incastrati soltanto gli anarchici.


La notte del 15 dicembre, tre giorni dopo la bomba, il ferroviere Giuseppe Pinelli volò dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, al quarto piano della questura di via Fatebenefratelli. Di fatto, la diciottesima vittima innocente di quella strage. E poche ore dopo, il ballerino Pietro Valpreda fu indicato come esecutore materiale dell’attentato. Colui che aveva portato la valigetta imbottita di esplosivo nel salone della Banca dell’Agricoltura, mentre alle quattro e mezza del pomeriggio erano in corso le contrattazioni. E lo avrebbe fatto facendosi trasportare in taxi per soli cento metri, dalla Scala a Piazza Fontana, a bordo di un taxi il cui conducente Cornelio Rolandi disse di averlo riconosciuto durante un confronto all’americana i cui contorni sono rimasti per sempre oscuri.
Ci sarebbero voluti più di vent’anni per capire cosa si celava dietro la strage, grazie all’inchiesta del giudice Guido Salvini che fu capace di riprendere i fili delle indagini condotte prima tra depistaggi e omertà. Ma nonostante lui, perché le prove che avrebbero potuto inchiodare i responsabili, arrivarono sempre un minuto dopo le sentenze delle decine di processi che si svolsero, nessuno ha mai pagato il conto. Né i neofascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale (Freda, Ventura, Maggi, Digilio…). Né una delle menti che sono emerse dietro il complotto, il capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, il prefetto piduista Federico Umberto D’Amato. Né gli uomini del Sid, il Servizio Informazioni della Difesa, a cominciare dal generale Gianadelio Maletti, fuggito in Sudafrica.
Quanto a Giuseppe Pinelli, l’incredibile conclusione a cui arrivò la procura di Milano con l’inchiesta guidata dal giudice Gerardo D’Ambrosio, fu che sarebbe precipitato nel cortile della questura a causa di un “malore attivo”. Mentre Luigi Calabresi, che al momento della morte di Pinelli non era nel suo ufficio, fu vittima di una feroce campagna di stampa che si concluse nel 1972 con il suo assassinio, per il quale furono condannati molti anni dopo quattro esponenti di Lotta Continua: il reo confesso Leonardo Marino (sulle cui dichiarazioni restano ombre e sospetti), Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi.
Fu l’inizio della cosiddetta strategia della tensione. Di altre bombe e altre stragi (Piazza della Loggia, Italicus…) e di un decennio di piombo, morti e terrore che attraversò il Paese fino al delitto di Aldo Moro. Ma affermare che di quell’incipit sanguinoso che il 12 dicembre 1969 fece perdere al paese la sua innocenza non sappiamo nulla, sarebbe un clamoroso errore. Perché sappiamo tutto o quasi. E sappiamo che alla fine la nostra democrazia ha tenuto. Non è affatto poco, se non si vanificherà lo sforzo di non perdere la memoria di quei giorni e di quegli anni.

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