La rete di Biden: il summit per la democrazia che svela un nuovo mondo

dic 10, 2021 0 comments


Di Lorenzo Vita

Il summit per la democrazia voluto dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, rappresenta una prima idea della nuova diplomazia forgiata dalla presidenza americana. Il capo della Casa Bianca ha scelto di dare un’immagine “ideale” alla politica estera della propria amministrazione. E per farlo ha posto in particolare l’accento sul concetto di “democrazia”. Una parola che Biden e i funzionari dem ripetono spesso come vero elemento che contraddistingue il rapporto tra Stati Uniti e resto del mondo.

Il presidente degli Stati Uniti, aprendo l’incontro virtuale a cui sono collegati 55 capi di Stato e di governo su 110 invitati, ha detto che il vertice si deve concentrare su tre temi: “la difesa contro l’autoritarismo, la lotta alla corruzione e il progresso nel rispetto dei diritti umani”. Il capo della Casa Bianca ha lanciato diverse proposte, tra i quali lo stanziamento di 424,4 milioni di dollari che serviranno, a detta del commander in chief, per “supportare i media liberi e indipendenti, combattere la corruzione, rafforzare i riformatori democratici, tecnologia avanzata per la democrazia, difendere elezioni e processi politici liberi ed equi”. Ma di questo programma ambizioso, perfettamente inserito in quel “destino manifesto” che tanto caratterizza l’ala democratica rappresentata da Biden quanto il mondo neoconservatore, rappresenta qualcosa di più di un semplice obiettivo ideale. Una corsa alla “civilizzazione” che, come confermato dal summit, nasconde qualcosa di molto più pragmatico e strategico su cui focalizzare l’attenzione.

Per capirlo, basta guardare all’elenco degli invitati (e degli esclusi). L’insieme di Paesi ospitati nel summit virtuale presieduto da Washington è infatti abbastanza eterogeno in punto di democrazia. E la lista degli invitati appare più come una cornice entro cui definire alleati e rivali dell’attuale America bideniana più che gruppi esclusivamente suddivisi in base all’essere o meno completamente democratici. Molti osservatori, per esempio, si interrogano sulla presenza di Paesi come l’Iraq, la Repubblica Democratica del Congo, le Filippine, l’Angola o il Pakistan. Altri criticano i parametri che sono stati combinati tra loro per indicare quale Paese possa essere considerato una democrazia effettiva, dal momento che in qualche caso si tratta più di speranza per future elezioni che realtà già pienamente democratiche e liberali. Mentre sul fronte degli esclusi, oltre alle superpotenze rivali (Cina e Russia), si registrano anche Turchia e Ungheria, Stati che non sono soltanto formalmente democratici, ma anche parte della Nato e, come nel caso di Budapest, dell’Unione europea.

Se dunque è impossibile considerare il criterio della pura democrazia liberale come parametro unico per la scelta di invitare o meno determinati Stati, è chiaro che dietro alcune scelte vi sia l’adesione a principi diversi. Strategie diplomatiche che servono non solo a tracciare antiche e nuove amicizie, ma anche a ribadire che il deterioramento dei rapporti con Washington non è senza conseguenze. L’obiettivo è quindi duplice: rinsaldare legami con partner regionali in bilico tra le superpotenze (dall’Ucraina, al Pakistan); avvertire i governi di Paesi amici che quel tipo di sistema politico non più gradito, e che pur essendo formalmente alleati, non per questo si è necessariamente amici.

Naturalmente un invito non è di per sé sinonimo di un cambio di rotta definitivo nella politica estera americana, tuttavia esistono segnali che non possono essere sottovalutati. L’esclusione di partner fondamentali del Medio Oriente (in particolare le monarchie del Golfo) è connaturato nella scelta di mettere in atto un summit per la democrazia, ma è anche un segnale che Washington è tornata a fare dei distinguo anche in un settore di confine. La decisione di non invitare alleati della Nato comporta che l’appartenenza all’Alleanza atlantica – per quanto fondamentale sul piano militare – non è più considerata sinonimo di partnership universale. E queste due precisazioni implicano che gli Stati Uniti adottano attualmente due linee diplomatiche: alleati politici, oltre che militari ed economici, e alleati strategici sì, ma non più affini a livello di forma di governo.

Due aree distinte, che però per Biden è fondamentale riuscire a far sovrapporre. Ed è questo quello che preoccupa soprattutto i grandi esclusi. Il presidente degli Stati Uniti considera da tempo prioritario rafforzare il rapporto tra gli Usa e le democrazia mondiali per costruire un grande blocco che si contrapponga ai rivali strategici americani, Cina e Russia. La distinzione tra Paesi democratici o meno è una scelta che, come abbiamo visto, può portare a incomprensioni e scelte opinabili, ma se per l’amministrazione dem la sfida è tra chi ha un regime democratico e chi no, è possibile che queste definizioni non siano solo ideali ma frutto di una nuova forma di politica estera varata dall’America is back. Il riconoscimento di una “patente di democrazia” da parte americana rischia così di essere uno spartiacque tra far parte o meno di un blocco che si amplia a seconda degli orizzonti Usa.

FONTE: https://it.insideover.com/politica/la-rete-di-biden-democrazia-summit-mondo.html

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