La rivolta in Egitto vista da Chomsky

dic 31, 2011 0 comments
Intervista all'intellettuale americano sul ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente, sulla repressione dei regimi militari e sulla forza destabilizzante della primavera araba.
Noam Chomsky, beniamino della sinistra, è famoso per le sue critiche ben articolate della politica estera americana. L'intellettuale americano si interessa specialmente al modo in cui gli Stati Uniti coccolano i regimi autoritari che sono minacciati, in particolare quando ci sono di mezzo interessi politici ed economici.

Chomsky è da lungo tempo professore nel dipartimento di linguistica e filosofia all'Istituto di tecnologia del Massachusetts (MIT), dove è famoso anche per aver sviluppato delle teorie che comprendono la "fabbrica del consenso" e la diffusione della propaganda attraverso i mezzi di informazione di massa. Di recente si è offerto di condividere le sue opinioni personali sull'Egitto del dopo-Mubarak con Egypt Indipendent (un settimanale che è anche on line).

Quale è la sua opinione sullo svolgimento degli avvenimenti del periodo di transizione militare? E da che parte pensa che stiano gli Stati Uniti in questa situazione?

Dall'inizio ci sono state tutte le ragioni per aspettarsi che gli Stati Uniti e i militari, che naturalmente si sono alleati in modo stretto, avrebbero fatto quello che gli era possibile per limitare il funzionamento della democrazia.

Per quale particolare ragione, secondo lei?

I militari, per ovvie ragioni: vogliono mantenere il massimo controllo politico e proteggere i loro notevoli interessi economici. Il governo degli Stati Uniti per una serie di motivi: il più limitato è che sono ben consapevoli dell'opinione pubblica egiziana, come si è saputo dai sondaggi gestiti dalle più prestigiose agenzie di sondaggi di opinione statunitensi; l'ultima cosa che vogliono è che quelle opinioni si riflettano nella politica, come avverrebbe in una democrazia che funziona. Il motivo più ampio è che, in generale, la democrazia è considerata una minaccia per gli interessi del potere, anche in patria. All'estero è ben consolidato nella cultura tradizionale che gli Stati Uniti hanno appoggiato la democrazia se e soltanto se è conforme a interessi economici e strategici, e non c'è la minima prova questi comprensibili, anche se deplorevoli, impegni siano cambiati.

Perché le continue dichiarazioni di Washington che condannano la brutalità dei militari e sostengono il fiorire della democrazia?

Naturalmente c'è un impegno retorico per la democrazia e tutte le cose buone, ma soltanto le persone più ingenue prendono sul serio queste dichiarazioni, da parte di qualsiasi stato. E la pratica, compresa quella molto recente, si accorda pienamente con le dottrine tradizionali.

Che cosa intende con "dottrine tradizionali"?

Quando un dittatore che a loro piace molto è in pericolo, come avviene di continuo, Washington segue una procedura abbastanza chiara: appoggiarlo il più a lungo possibile, per esempio, se l'esercito gli si rivolta contro, poi emettere dichiarazioni sul nostro anelito per la democrazia, e poi lavorare sodo per mantenere al suo posto il precedente sistema di dominio il più possibile. Gli esempi abbondano: Somoza, Marcos, Duvalier, Chun, Ceausescu, Mobutu, Suharto e altri. Che la stessa procedura sia stata seguita nel caso di Mubarak non dovrebbe meravigliare nessuno.

Pensa che gli Stati Uniti sarebbero disponibili a venire a compromessi su principi come i diritti umani per mantenere gli interessi come Israele e gli accordi di Camp David?

Non si può venire realmente a compromessi sui principi come "i diritti umani" prima di tutto perché in primo luogo essi non vengono seriamente difesi - eccetto, naturalmente, quando si tratta di nemici o dove non ci siano in gioco importanti interessi di potere. Le prove di questo fatto sono schiaccianti, non soltanto per gli Stati Uniti, naturalmente, al punto tale che è superfluo persino ricordare alcuni dei numerosi esempi. I centri di potere degli Stati Uniti, statali e privati, hanno interessi strategici ed economici di vecchia data in quella area geografica che essi continuano a considerare fondamentali. Le politiche governative riflettono questi interessi, come hanno fatto anche i governi della Gran Bretagna e della Francia nei loro giorni di gloria (e, tuttavia, come potenze minori). La stessa cosa si può dire anche di altri.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, lei crede che in generale condividano tutti lo stesso punto di vista, cioè: il Dipartimento di stato, il Congresso, la Casa Bianca, la difesa, ecc.

I sistemi di potere non sono omogenei e quindi ci sono delle differenze all'interno del governo e dei centri di potere centrati nel mondo degli affari che hanno un ruolo enorme nel programmare la politica interna ed estera. Lo spettro, però, non è molto ampio. Ci sono naturalmente quelli che partono dal consenso, coloro che il consigliere di Kennedy e Johnson per la Sicurezza nazionale McGeorge Bundy, chiamava "gli uomini selvaggi dietro le quinte". Ci sono anche forze esterne, compresa l'opinione pubblica quando vasti segmenti del pubblico sono organizzati e attivi. All'interno dello spettro operativo, però, vengono tollerate soltanto opinioni ristrette, come la casistica rivela chiaramente.

Sono emersi dei rapporti recenti che asseriscono che il senato degli Stati Uniti si è presumibilmente attivato perché la cifra annuale di 1,3 miliardi di dollari che versa per finanziamenti militari nell'anno finanziario 2012, sia subordinata al trasferimento di potere a un governo civile - sulla base di violazioni dei diritti umani e di uso scorretto di gas lacrimogeni, ecc. Che cosa ne pensa?

La parola "presumibilmente" è importante. Gli Stati Uniti hanno leggi che proibiscono il trasferimento di armi a stati che ricorrono alla tortura, a gravi violazioni dei diritti umani e ad altri crimini - per esempio, la grave violazione di Israele riguardo alle Convenzioni di Ginevra nei territori [palestinesi] Occupati. Vengono applicate in qualsiasi misura importante quando interferiscono con interessi strategici ed economici?

Per quanto riguarda l'opinione pubblica, quali sono le sue opinioni sull'uso persistente di propaganda contro rivoluzionaria condotta tramite i mezzi di informazione statali, particolarmente riguardo alla distorsione di informazioni sugli scontri tra militari e dimostranti, nell'Egitto post-25 gennaio?

Naturalmente i regimi autoritari tentano di restringere e controllare le idee e l'espressione delle stesse. Ad alcuni, come i nazisti tedeschi, sembra sia riuscito molto bene farlo, alla Russia bolscevica, un po'meno, ma quello si svolgeva in un periodo molto più lungo senza conflitti militari in corso che facevano da forza mobilitante.

Malgrado, però, un incremento di scetticismo da parte degli Egiziani verso i mezzi di comunicazione statali all'inizio di questo anno, la propaganda di stato continua a dimostrarsi particolarmente efficace nello sviare e distorcere l'opinione pubblica nel tempo. Che cosa provoca questo, secondo lei?

Presumo che sia un riflesso di preoccupazioni più importanti. La lotta contro sistemi duri e brutali costa molto. La gente deve sopravvivere, un argomento di particolare preoccupazione per coloro che, per prima cosa, sono già al limite della sopravvivenza. Mentre la lotta continua, e la gente non vede guadagni concreti nella loro vita quotidiana - ma invece distruzione e insicurezza - è naturale che molti vorrebbero la stabilità, il che vuole dire subordinazione al potere. Un effetto collaterale potrebbe essere maggiore disponibilità ad accettare la propaganda che dà la colpa delle privazioni alla lotta per la libertà e la giustizia. E' un fenomeno comune in queste lotte, in tutta la storia.

Recentemente c'è stato quello che alcuni hanno descritto come "guerra dei mezzi di informazione" tra il giornalismo indipendente e i mezzi di informazione di massa statali. Lei pensa che questa sia davvero una lotta bilaterale con un aumento di piattaforme di mezzi di informazione orizzontali/sociali che costituiscono una minaccia, o è un fenomeno troppo marginale perché abbia un reale impatto sulle gerarchie dell'informazione ormai costituite?

In quanto al possibile impatto, non ne so abbastanza per poter esprimere un giudizio con certezza. Qualsiasi sia il giudizio, è chiaro che cosa si dovrebbe fare: estendere la contestazione, e arruolare gruppi più grandi perché vi partecipino. Senza dubbio è una battaglia impari, ma i sistemi di potere non è detto che debbano assolutamente vincere. Aver deposto Mubarak è soltanto un esempio di questo. Non è necessariamente una battaglia persa in partenza. Che cosa si deve fare dipende dai giudizi di coloro che sono direttamente impegnati nella lotta.

A proposito delle dittature che in passato sono state minacciate minacciate e che hanno forti legami con gli Stati Uniti, come lei ha detto, rispetto alle "dottrine tradizionali", ha qualche parere sul modo in cui stanno andando le cose questa volta, e/o sulle speranze di poter essere ottimisti?

La speranza più grande di essere ottimisti è offerta dalle persone coraggiose che hanno affrontato tanti rischi a Piazza Tahrir per rovesciare un regime brutale, motivando altre persone in tutto il mondo e dalle molte persone come loro oggi e in tutta la storia che hanno rifiutato di accovacciarsi in silenzio davanti all'oppressione e all'ingiustizia. Ecco perché il mondo è diventato un posto un po' più decente, non senza regredire, spesso con un ritmo angosciosamente lento, ma con molte vittorie importanti.

Fonte:Znet

Da Globalist Syndication.it

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