Dr(ag)oni nei mari d’Oriente

mag 18, 2012 0 comments
Di Gabriele Battaglia
da Pechino
@Chen_the_Tramp
“Troppi dragoni, troppo rumore”. E quindi uno dei draghi in questione cambia strategia e sceglie, caso mai ce ne fosse bisogno, l’attacco silenzioso e improvviso. La Cina sta svolgendo esercitazioni militari sperimentando l’utilizzo di Uav (unmanned aerial vehicles) cioè droni: quegli aerei telecomandati, anche a un continente di distanza, in grado di bombardare, perlustrare e sorvegliare. Una tecnologia che gli Usa utilizzano già ampiamente, spesso a sproposito, per la guerra in Afghanistan e il pattugliamento delle proprie zone di frontiera.
La notizia arriva dal Giappone ed è confermata dalla Cina stessa. Navi da guerra nipponiche hanno infatti assistito con un po’ di apprensione ad esercitazioni cinesi al largo dell’atollo di Okinotori, che Tokyo considera roba sua mentre Pechino ritiene poco più di uno scoglio sperduto nel Pacifico (e che quindi nessuno si sogni di avanzare pretese territoriali). Sui ponti di tre navi dell’Esercito Popolare di Liberazione, si svolgevano prove di decollo e di atterraggio dei droni.
Il colonnello Li Jie, dell’Accademia Navale Cinese, ha poi dichiarato al South China Morning Post che dalle manovre in alto mare sono emersi progressi nella tecnologia Uav del Celeste Impero.
“La nostra marina ha l’obbligo di fare esercitazioni – ha aggiunto Li – e dovrebbe intensificarle in tutte le acque che, nel difficile clima di oggi, può navigare”. Un chiaro riferimento alle dispute territoriali nel Mar Cinese Orientale e Meridionale.
In realtà, i droni cinesi non sono una novità assoluta. I primi debuttarono nel 2006 all’air show di Zhuhai: cinque modelli presentati come caccia invisibili in grado di eludere i radar nemici.
Sei mesi dopo, l’11 maggio 2007, un rapporto pubblicato da una rivista militare di Pechino rivelò che oltre mille caccia Jian-5 erano stati riconvertiti in Uav o missili da crociera in grado di colpire portaerei Usa in un eventuale conflitto negli stretti. Il documento affermava anche che la tecnologia dei droni cinesi aveva già raggiunto i più elevati standard internazionali, inclusi quelli degli Stati Uniti e di Israele, e aggiungeva che entro il 2010 sarebbero stati riconvertiti a Uav migliaia di caccia Jian-6.
È tuttavia lo stesso colonnello Li a riconoscere che “la tecnologia Uav di Pechino è ancora indietro rispetto agli Stati Uniti”. La Cina ha già fatto esercitazioni con i droni a terra e nei pressi delle coste, ma “le correnti d’aria e le condizioni meteorologiche sono molto diverse in alto mare rispetto alle zone costiere, quindi è necessario andare lontano per testare i nostri droni fatti in casa”.
Quanto alle preoccupazioni di Giappone e Usa, Xu Guangyu, ricercatore dell’Associazione per il controllo degli armamenti e il disarmo di Pechino, si stupisce dell’altrui stupore: “Non siamo andati laggiù in passato perché l’Esercito Popolare era debole e incapace di farlo, ma ora la nostra flotta dovrebbe andare il più lontano possibile, perché la Cina di oggi è forte e i nostri interessi marittimi sono in espansione”, ha dichiarato al South China Morning Post. “Perché il mondo non si sorprende nel veder comparire in Asia delle navi militari Usa – ha aggiunto – ma si chiede invece perché ci sono navi del nostro esercito nel Mar Cinese Orientale?”
Da parte loro, alcuni analisti Usa sostengono che la maggiore assertività di Pechino prelude a una vera e propria “dottrina Monroe” in salsa di soia. In tal caso, il “cortile di casa” della Cina sarebbe delimitato da confini che visti sulla mappa sembrano una “lingua penzolante che lecca la costa dei suoi vicini”, scrive il Financial Times.
L’ultimo incidente è accaduto nel Mar Cinese Meridionale e risale a un mese fa, quando una nave della marina filippina ha tentato di requisire alcuni pescherecci cinesi che, secondo Manila, pescavano illegalmente nei pressi di alcune isole contese: Scarborough Shoal per le Filippine e Huangyan per la Cina. Navi da guerra dell’Esercito Popolare sono accorse sulla scena e hanno fatto cambiare idea ai dirimpettai.
Tra “Mare del Sud” e “Mare dell’Est” (così si chiamano in cinese) sono parecchie le zone d’attrito. Oltre agli arcipelaghi maggiori, tutti rigorosamente con nome doppio quando non triplo o quadruplo a seconda di chi li rivendica (Senkaku/Diàoyútái, Paracelso/Xīshā e Spratly/Nánshā), sono contesi isolotti, scogli, formazioni coralline. Piantare la propria bandiera su qualsiasi roccia affiorante significherebbe infatti accedere alle risorse naturali di cui sono ricchi i fondali – dal pesce a materie prime e fonti energetiche di tutti i tipi – e controllare snodi strategici.
In rete circola una barzelletta diffusa da netizen cinesi: “Vai alle isole Spratly con un computer portatile. Se accedi a Twitter/Facebook sono filippine, altrimenti cinesi”.

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