Tibet: il grido di un popolo che non si arrende

nov 11, 2013 0 comments

Di Andrea Grieco
La lotta per la libertà e l’indipendenza del Tibet affonda le sue radici nel lontano 10 marzo 1959 quando la popolazione di Lhasa, la capitale del Tibet, insorse contro un’aggressione spietata condotta dal governo cinese per la liberazione della regione dalla “tirannia del Dalai Lama”. Gli scontri furono repressi nel sangue. Un milione e duecentomila tibetani morirono. Il Dalai Lama, la più alta autorità teocratica del Tibet, dovette fuggire in esilio in India, dove tutt’oggi risiede e da dove guida una lotta pacifica per la liberazione del suo popolo dall’ oppressione cinese.
Per il Paese delle Nevi ebbe inizio una lunga notte buia, una catena di violazioni dei più elementari diritti umani: il diritto alla libertà individuale, alla vita, all’autodeterminazione, il diritto a un giusto processo, a un’esistenza dignitosa, alla libertà religiosa. Sconcerta come il 22 ottobre 2013, solo a cinquantaquattro anni dall’inizio della persecuzione del popolo tibetano, tredici Stati membri del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (UNHRC) abbiano criticato la Cina con esplicito riferimento alla situazione all’interno del Tibet.
Durante una procedura condotta da un gruppo di lavoro composto dai 47 Stati membri del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che ogni quattro anni esamina l’aderenza degli Stati membri delle Nazioni Unite agli impegni assunti in questo campo, si è chiesto alla Cina, attraverso delle istanze scritte, di modificare il proprio modus operandi verso le minoranze etniche tibetane e di rispettare i più basilari e importanti diritti umani, oggi di fatto violati in un contesto in cui migliaia di prigionieri politici e religiosi sono detenuti in carceri e campi di lavoro forzato, la tortura è pratica comune, le donne sono costrette ad aborti e sterilizzazioni forzate, i nomadi hanno dovuto abbandonare i loro territori, uccidere il bestiame ed sono stati deportati in posti dove si stanno consumando di depressione e miseria.
Nonostante gli inviti ad adottare una politica di maggiore apertura e maggiore tolleranza verso le minoranze tibetane, il governo cinese sembra non cambiare rotta e per tutta risposta continuano ancora oggi gli arresti indiscriminati, non ultimo quello di tre giovani tibetani accusati di aver impedito alle autorità cinesi l’arresto di un monaco tibetano immolatosi dinanzi a una stazione di polizia nel Sichuan: i tre ragazzi sono stati condannati a una reclusione di otto anni senza possibilità di impugnare in appello la sentenza di condanna.
È del 28 ottobre scorso invece la notizia dell’esplosione di una jeep in piazza Tiananmen, la piazza principale di Pechino, simbolo del comunismo cinese. Dello strano incidente nulla è possibile sapere a parte il bilancio delle vittime, 5 morti e 34 feriti. Le autorità cinesi hanno provveduto a rimuovere qualsiasi traccia fotografica e qualsiasi testimonianza dal web, oltre ad aver fatto sparire nel giro di venti minuti i resti dell’auto. Ancora non si conoscono i termini di questo attentato, che prontamente si è provato a mistificare come un casuale incidente automobilistico, ma è riconosciuto quanto possa difettare in fantasia la stampa cinese: a volte meglio una verità ridimensionata che una sciocca bugia. C’è chi parla di attacco terroristico, c’è chi invece parla – i più in realtà – di un’ennesima auto-immolazione in nome del popolo tibetano, che a oggi conta 128 tibetani morti, datisi alle fiamme per non far cadere nell’oblio la sofferenza di un popolo che chiede aiuto e che è devastato e spogliato dalla prepotenza cinese.
Le restrizioni nei villaggi e nei monasteri tibetani continuano indiscriminate a opera del governo cinese che sottopone a estenuanti interrogatori e torture chiunque sia trovato in possesso di una bandiera tibetana o di una foto del Dalai Lama, chiunque manifesti contro il governo. Come è accaduto il 29 ottobre ai tre funzionari tibetani della regione del Dzatoe rimossi dalla loro carica istituzionale di capi villaggio poiché accusati di essersi rifiutati di esporre la bandiera cinese dinanzi alle proprie abitazioni e ai propri uffici. Dunque l’allarme cresce, come aumenta il numero dei tibetani immolati: il tempo stringe, il Tibet brucia, non ce la fa più ad aspettare che la Cina si trasformi. E noi popoli d’Europa: vogliamo davvero che si consumi un’altra Shoah?

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