Divided America: alle radici delle disuguaglianze negli Usa/1

feb 29, 2020 0 comments

Di Andrea Muratore

La società occidentale a noi contemporanea va via via configurandosi come una “società delle disuguaglianze”. Il mondo occidentale si è trovato infatti nella condizione di dover affrontare nel corso degli ultimi anni sfide di amplissima portata, venute prepotentemente in emersione nel momento in cui il suo modello socio-economico e politico sembrava destinato ad un’affermazione su scala planetaria in seguito alla fine della Guerra Fredda e al collasso dell’Unione Sovietica.
Molte delle sfide in questione rappresentano problematiche di caratura planetaria: le questioni ambientali, il terrorismo internazionale, la stagnazione economica ne sono chiari esempi. Trasversalmente ad esse si innesta la sfida ad ampio raggio posta dall’insorgenza di disuguaglianze economiche senza precedenti nella storia del secondo dopoguerra all’interno delle nazioni occidentali, che vanno a sommarsi al crescente dilatamento delle disuguaglianze tra gli Stati più prosperi del pianeta e quelli intrappolati nella palude del sottosviluppo.
La sperequazione nella distribuzione della ricchezza su scala planetaria sta raggiungendo in questi anni picchi vertiginosi: in un contesto tanto preoccupante, è interessante studiare come la polarizzazione delle ricchezze riscontrabile a livello mondiale sia stata accompagnata, nell’ultimo trentennio, da un analogo fenomeno di crescita delle disuguaglianze economiche all’interno delle nazioni più prospere del pianeta.
Oggetto di tale analisi sarà proprio questa delicata tematica: utilizzando gli esempi storici del caso degli Stati Uniti, si analizzeranno in profondità le dinamiche che, tra gli Anni Ottanta e gli Anni Novanta, hanno portato all’insorgenza di importanti disuguaglianze sotto il profilo della distribuzione del reddito e della concentrazione della ricchezza in tutti i Paesi occidentali.
L’intervallo temporale preso in considerazione è altamente significativo in quanto i due decenni che segnarono un decisivo cambio di rotta nell’economia occidentale, destinato a trasmettersi sulla società e sul mondo politico, prepararono il terreno per lo sviluppo delle dinamiche che sarebbero occorse nei primi anni del XXI secolo. La diffusione su scala planetaria dell’ideologia neoliberista, che sarà analizzata nel prossimo saggio, comportò un cambio di paradigma consistente che influenzò le scelte dei decisori politici dopo che Stati Uniti e Gran Bretagna si diedero come leader due loro aperti fautori, Ronald Reagan e Margaret Thatcher.


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Margaret Thatcher e Ronald Reagan, alfieri politici dell’ascesa del neoliberismo nel Regno Unito e negli Usa

La rivoluzione neoliberista

L’interconnessione tra l’ascesa del neoliberismo a dogma dominante nell’economia occidentale e la crescita repentina delle disuguaglianze conosciuta dalla stragrande maggioranza dei Paesi occidentali dagli Anni Novanta in avanti sarà studiata nel dettaglio ricercando, attraverso esempi storici, analisi empiriche e studi di prospettiva, gli effetti che le politiche di stampo neoliberista hanno prodotto sui livelli di distribuzione dei redditi e della ricchezza negli Stati Uniti.
Dalla finanziarizzazione dell’economia alla deregulation, dalle politiche di contenimento del welfare state istituito in Occidente nel trentennio seguito alla fine della seconda guerra mondiale ai grandi cambiamenti occorsi nel regime fiscale, ogni possibile causa delle disuguaglianze sarà vagliata e studiata a trecentosessanta gradi; grande attenzione sarà rivolta poi al tema della globalizzazione, processo ancora oggi di difficilissima lettura ed interpretazione.
La globalizzazione, caratterizzatasi sin dal principio come processo di matrice squisitamente occidentale se non prettamente americana e considerata inizialmente il viatico ideale per l’esportazione su scala planetaria del modello uscito vincente dalla Guerra Fredda, ha portato con sé numerosi strascichi sotto il profilo della crescita delle disuguaglianze. Lo sdoganamento completo dei movimenti di capitali su scala planetaria ha consentito un’accumulazione di ricchezza senza precedenti nelle mani di pochissimi soggetti, costituenti una vera e propria super-class depositaria di una quota macroscopica di influenza politica ed economica.
Al tempo stesso, la globalizzazione ha portato con sé le cause di numerosi squilibri: alla delocalizzazione degli impianti produttivi e alla deindustrializzazione dell’Occidente si è progressivamente aggiunta una sempre maggiore compressione del fattore produttivo lavoro su scala transnazionale mano a mano che i redditi da capitale acquisivano una rilevanza sempre maggiore nei sistemi economici. L’interconnessione massiccia delle economie ha poi funto da elemento incendiario nel momento in cui la Grande Crisi del 2007-2008 ha messo l’economia occidentale di fronte alle sue grandi contraddizioni.

La frattura della “società della disuguaglianza”

L’eziologia del tracollo, e della seguente recessione, intervenuto a porre fine all’età dell’oro della finanza occidentale sta proprio nelle politiche condotte dai governi nei due decenni precedenti, che hanno contribuito a creare una situazione di difficile sostenimento, e nell’eccessiva fiducia riposta dagli operatori economici nella tenuta di un sistema che ha finito per produrre distorsioni come la nascita degli istituti bancari too big to fail, i cui portafogli si riempirono di titoli tossici, e la conduzione di una crescita eccessivamente drogata dallo strumento del debito.
La Grande Crisi ha costretto l’ideologia neoliberista, che si sembrava destinata ad assurgere a vero e proprio “pensiero unico”, al redde rationem, mentre le sue conseguenze di lungo termine stanno, in questi ultimi anni, portando a un generale screditamento della globalizzazione monopolare.
Le società occidentali si ritrovano oggigiorno fratturate al loro interno e prive di indirizzo: i due grandi eventi elettorali del 2016, ovverosia il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea e le elezioni presidenziali statunitensi, hanno dato conferma di un malessere sociale diffuso principalmente nelle classi medie dei Paesi occidentali, che hanno pagato i prezzi più cari negli ultimi anni. La vittoria del fronte favorevole alla Brexit e la sorprendente elezione di Donald J. Trump a quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti sembravano, in un certo senso, chiudere un cerchio iniziato oltre trentacinque anni prima: proprio nei Paesi che portarono a passo di marcia l’Occidente ad abbracciare il neoliberismo, gli squilibri e le contraddizioni interne connesse alla crisi di un modello che si riteneva inscalfibile (oltre, chiaramente, a notevoli problematiche di materia sociale e a questioni di rilevanza geopolitica) hanno portato a un completo ribaltamento di prospettive.
Federico Rampini ha attribuito gli sconvolgimenti a cui l’Occidente è andato incontro negli ultimi anni a un vero e proprio “tradimento dell’élite[1]”, ovverosia del blocco socio-politico-economico dominante nei Paesi occidentali, i cui esponenti avrebbero col tempo perso il contatto con la realtà, calpestando in continuazione le istanze principali della popolazione.
La vistosa crescita delle disuguaglianze ha sicuramento contribuito a un progressivo scollamento dei gruppi dirigenti dalle società occidentali mano a mano la costituzione delle super-class si accompagnava a un peggioramento in termini relativi, se non addirittura assoluti, delle condizioni di vita della fascia più povera della popolazione e si costituiva quello che il Premio Nobel Joseph Stiglitz ha definito “il governo dell’1%, dall’1%, per l’1%[2]”, ovverosia un sistema fortemente distorto destinato a squilibrare notevolmente l’equilibrio sociale dei Paesi occidentali.
Tuttavia, in fin dei conti, il triennio successivo all’ascesa di Trump negli Usa ha finito per essere caratterizzato da una sostanziale continuità col passato a livello di policy. Anzi, il modello di politica economica dell’amministrazione è stato proprio il liberismo à la Ronald Reagan, sostanziato in una serie di riforme economiche e fiscali che hanno progressivamente aumentato l’opulenza della “super-class”[3].


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Donald Trump parla davanti a una rappresentanza di minatori durante la campagna elettorale del 2016

I rischi della disuguaglianza

È infatti rilevante porre l’accento sui principali motivi che rendono le disuguaglianze economiche eccessive pericolose per lo sviluppo di una società, trasformandole in un vero e proprio fiume carsico intento ad eroderne in maniera sotterranea, ma inesorabile, le fondamenta.
In primo luogo, è necessario notare come la concentrazione della ricchezza e dei redditi in poche mani costituisca un freno alla crescita aggregata di un’economia, contrariamente ai dettami propugnati dalla trickle-down economics neoliberista. Come sottolineato da Aldo Giannuli, il sistema attuale è fortemente distorto, e il contesto ulteriormente complicato dall’estrema finanziarizzazione delle economie occidentali: “questo eccesso di accumulazione immobilizza ingentissime risorse nella gota morta e improduttiva dei mercati finanziari, e impoverisce le società e l’economia reale.
Il problema è che il capitale speculativo cresce solo a danno di quello produttivo, perché sottrae investimenti all’industria, all’agricoltura, al commercio e, di riflesso, determina una riduzione della dinamica occupazionale e del monte salari[4]”. Studi riportati da Maurizio Franzini e Marco Pianta nel loro Disuguaglianze – Quante sono, come combatterle sono dello stesso avviso, riscontrando una proporzionalità inversa, nella seconda metà del Novecento, tra l’andamento dei tassi di accumulazione dei capitali e i trend di crescita macroeconomici nei sistemi economici occidentali[5].
In secondo luogo, è necessario ribadire come, al giorno d’oggi, una concentrazione di ricchezza intensiva si accompagni necessariamente a una stretta restrizione del novero di soggetti depositari di reale influenza nei contesti politici internazionali e statali. Franzini e Pianta hanno definito “capitalismo oligarchico” il sistema oggigiorno vigente[6], mentre il giornalista e saggista Massimo Fini, nel 1985, tracciava un paragone tra le disuguaglianze nel mondo contemporaneo e quelle proprie dell’Ancien Régime, argomentando che “in questa società di democraticamente uguali che è la nostra le disuguaglianze sono macroscopiche. E quindi l’invidia (che è sofferenza) trova il suo massimo alimento: già incoraggiata dal principio di uguaglianza viene ulteriormente esasperata dal fatto che questa uguaglianza è poi clamorosamente disattesa […] Il mondo dell’Ancien Régime appare, sotto questo aspetto, più equilibrato, più compensato […] guardando le cose in ottica esistenziale[7]”.
Entrambi i contributi, in poche parole, delineano un quadro ben preciso: lo slittamento di influenza è foriero di un grave vulnus alle fondamenta democratiche ed ugualitarie su cui si fondano le società occidentali, e la conseguenza della continua crescita delle disuguaglianze potrebbe essere un completo svuotamento del principio di rappresentanza e di sovranità popolare a scapito delle prerogative di pochi, precisi centri di potere ed interesse.
Il “capitalismo oligarchico” ha saputo affermarsi nel corso degli ultimi decenni anche attraverso una serie di politiche economiche ad esso acquiescenti, che attraverso tagli alle imposte, scappatoie fiscali, deregolamentazioni e aperture incondizionate alla finanziarizzazione dell’economia hanno aperto la strada alla concentrazione di ricchezza, potere e influenza nelle mani di pochi individui[8]. Confrontando i casi verificatisi in Paesi che hanno operato rapide e drammatiche transizioni all’economia di mercato, come Messico, Cina e Russia, con la situazione occidentale strutturatasi dagli Anni Ottanta in avanti David Harvey è giunto addirittura a domandarsi se la tendenza a generare oligopoli e concentrazioni smisurate di potere “di classe” non sia insita nella stessa natura di fondo dell’ideologia neoliberista[9].
Esiste, infine, una problematica sociale, se non addirittura “morale”, connessa alla presenza di disuguaglianze economiche: proseguendo il discorso precedente sul piano delle aspettative personali degli individui, infatti, è importante sottolineare come altrettanto pericolosa della disuguaglianza reddituale o di ricchezza sia la “disuguaglianza di opportunità” che mina, nel lungo periodo, le prospettive di mobilità sociale e crescita personale degli individui. Dalle disparità nell’accesso all’istruzione al ruolo delle reti di interesse e di conoscenze sociali, infatti, le disuguaglianze economiche possono influenzare notevolmente diversi capi e consolidarsi nel tempo, portando nel corso degli anni a una situazione di immobilismo e cristallizzazione in cui i privilegi di una ristretta élite si perpetrano in continuazione e, al di sotto di essa, permane un sostanziale immobilismo. Assume in tale ambito rilevanza l’intervento di Massimo Fini citato in precedenza: in un sistema che professa l’uguaglianza di opportunità come suo principio basilare, tale deviazione dal percorso tracciato rappresenta un’arbitraria sottrazione di prerogative a una consistente fetta della popolazione.
Queste sono, adeguatamente riassunte, le principali istanze con cui gli studiosi e i decisori pubblici si trovano ad interagire affrontando il problema della disuguaglianza economica. La spaccatura sociale che i processi elettorali occidentali degli ultimi anni hanno portato in emersione mostra l’esistenza di una profonda frattura tra città e aree rurali, tra classi sociali e gruppi etnici, che oggigiorno ha assunto una rilevanza decisamente maggiore alla tradizionale polarizzazione ideologica del sistema politico occidentale. Quarant’anni di politiche neoliberiste, un ventennio abbondante di globalizzazione e otto anni di crisi hanno prodotto effetti radicalmente diversi nelle contee della Rust Belt e nella Silicon Valley californiana, nelle aree rurali del Kent e nella City di Londra, ma anche in quartieri diversi di una metropoli cosmopolita e complessa come la capitale britannica: nell’epoca delle disuguaglianze, anche la democrazia finisce per dividere i popoli.


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Saranno le disuguaglianze ad affossare definitivamente il mito dell’American Dream?

Già nel 2007 un osservatore attento come il già citato David Harvey, nella sua Breve storia del neoliberismo, indicava le prevedibili reazioni a cui sarebbe andato incontro il sistema dominante: “Il neoliberismo nella sua forma pura ha sempre rischiato di evocare la propria nemesi, sotto forma di populismi e nazionalismi […] La globalizzazione economica è entrata in una nuova fase. Un contraccolpo sempre più forte ai suoi effetti, specialmente nelle democrazie industriali, minaccia di avere un impatto distruttivo sull’attività economica e sulla stabilità sociale in molti Paesi. Lo stato d’animo dominante in queste democrazie è di rassegnazione e ansia, il che contribuisce a spiegare l’ascesa di un nuovo tipo di politici populisti. Ciò può facilmente trasformarsi in rivolta[10]”. L’incapacità di comprensione e risposta dimostrata dall’élite politico-economica tradizionale di fronte alle grandi problematiche occorse negli ultimi anni ha ulteriormente stimolato lo sviluppo di quest’ultime, contribuendo ad allargare il solco che separa la grande maggioranza della popolazione occidentale dalla sua classe dirigente.
L’accumulo di problematiche sociali ed economiche avvenuto in questi ultimi anni ha sovraccaricato le società occidentali: il problema delle disuguaglianze va affrontato in tempi brevi, prima che la piena sommerga completamente un sistema già messo in difficoltà, screditato profondamente e insidiato dall’emergere, sul piano internazionale, di competitori nuovi e dinamici come la Cina, la Russia e l’India, intenti a riqualificare su una base multipolare il sistema geopolitico ed economico. Dall’analisi storica delle radici delle disuguaglianze si può capire nel migliore dei modi quali siano gli interventi necessari per offrire soluzione a un male che mette a repentaglio il futuro e lo sviluppo del sistema occidentale.

Fonti:

[1] Alberto Flores D’Arcais, Dalla globalizzazione a Trump, Rampini racconta il tradimento dei leader dell’Occidente, Repubblica, 25 novembre 2016
[2] Joseph Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza, Einaudi, Torino, 2014, pag. XI prefazione
[3] Giacomo Gabellini, I brindisi dell’élite di Wall Street a Donald Trump, Osservatorio Globalizzazione, 27 dicembre 2019
[4] Aldo Giannuli, Uscire dalla crisi è possibile, Ponte alle Grazie, Milano, 2012, pag. 160
[5] Maurizio Franzini, Marco Pianta, Disuguaglianze – Quante sono, come combatterle, Laterza, Bari, 2016, pag. 96-101
[6] Maurizio Franzini, Marco Pianta, Disuguaglianze – Quante sono, come combatterle, Laterza, Bari, 2016, pag. 8
[7] Massimo Fini, La Ragione aveva torto?, in La modernità di un antimoderno, Marsilio, Venezia, 2016, pag. 135-136
[8] Maurizio Franzini, Marco Pianta, Disuguaglianze – Quante sono, come combatterle, Laterza, Bari, 2016, pag. 130
[9] David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano, 2007, pag. 42
[10] David Harvey, Breve storia del neoliberismo, Il Saggiatore, Milano, 2007, pag. 96

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