Il presidente, il cattolico, l’esperto di intelligence: ricordo politico di Francesco Cossiga

ago 31, 2020 0 comments

Di Marco Giaconi *

Chi fu, Cossiga, almeno per me? Un maestro, prima di tutto. I maestri si cercano, e quindi si trovano, ma non sono mai quelli che ti fornisce la stanca e spesso stupida università; ma te li dà sempre e solo la vita, la storia della tua formazione, della tua Bildungun termine che viene da Bild, “immagine”, “simbolo”, ma anche da Bilden, “costruire”, “creare”, “comporre”, “dare forma”.
 Ne ho avuti tanti, di Maestri, per mia fortuna ma, in compenso, ho incontrato una grande quantità di idioti all’Università.
 Con Cossiga, che incontrai quasi per caso, ebbi un rapporto costante per diversi anni. Lo andavo a trovare a casa sua, negli anni in cui aveva appena finito di fare il Presidente della Repubblica, poi la frequentazione, sia pure piuttosto rada, è durata fino a poco prima della sua morte.
 Conoscevo già, per sommi capi, il mondo di cui Cossiga si circondava: un famoso militare, il “giro” degli economisti, qualche “boiardo di Stato”, la gente con cui amava confrontarsi di solito.
 Era un cattolico fervente, non certo uno “adulto”, per dirla con Romano Prodi, ma si vedeva che suo padre era stato il Venerabile della R.L. “Zanfarini” all’Oriente di Sassari, che oggi mi risulta inattiva.
 Quindi, nella particolare mistura di Cossiga, un cattolico senza indugi che, però, ha una identità nazionale e risorgimentale come quella dei “laici” liberali, repubblicani, socialisti umanitari.
 Una vera anomalia nella Democrazia Cristiana, che era fatta sì di cattolici di provatissima fede, ma che aveva una tradizione di collegamenti istituzionali con la Chiesa, che era ancora antirisorgimentale, antinazionale, spesso fredda verso uno Stato italiano sempre bollato come “massonico” e “laicista”.
 Cossiga avrebbe potuto fare benissimo il Venerabile, come suo padre, ma era un cattolico fedelissimo alla Chiesa e ai suoi dettami.
 Quali erano i punti salienti dei miei discorsi con Cossiga? In primo luogo la percezione, che egli aveva, di una debolezza strutturale dell’Italia, che la rendeva debole e insicura sul piano internazionale. Debolezza finanziaria, e Cossiga lesse perfettamente la crisi che colpì l’Italia dopo il boom economico, ma si annoiava quando leggeva i testi di Bancor, ovvero Guido Carli, che criticava su “L’Espresso” i decreti che lui stesso aveva spesso scritto. Debolezza politico-militare, che non vuol dire qualche cannone in più, ma la capacità di usarli politicamente. Lui l’aveva.
 Debolezza culturale, rideva del marxismo stinto e sciocco che girava nelle università (e lui apprezzava la ricchezza del pensiero di Marx) e, infine, debolezza industriale. Colpa soprattutto, per Cossiga, di una classe imprenditoriale più adatta a portarsi a letto le segretarie e le canzonettiste del Forte dei Marmi che a adattarsi al mercato-mondo.
 Troppi “spiriti animali” fanno male anche al capitalismo, che non è lo sfogatoio di un cafone arricchito e represso. Non ho mai sentito Cossiga parlar bene di qualche tycoon italiano, anche se fu lui a fare di Gianni Agnelli, il più fatuo e incostante tra i “padroni”, un senatore a vita.
 Ecco, il coraggio, che Cossiga aveva a iosa, era quello che, secondo lui, mancava alla classe politica italiana. E anche agli imprenditori, bravi a chiedere soldi allo Stato ma molto meno bravi a utilizzarli per le nuove tecnologie e per stimolare il mercato interno con salari migliori.
 Quando parlava di classe operaia, Cossiga poteva essere facilmente confuso con un comunista, ma senza la retorica inevitabile del comiziante. E non era di quelli che amano semplicemente il popolo, era un raffinato signore che non aveva paura delle masse e, anzi, faceva sfoggio delle sue origini “balenti” e pastorali. Mentre, ironizzava, il cugino Berlinguer era la “parte nobile” della famiglia.
 Niente a che fare, con Cossiga, con lo snobismo talvolta cafone di certi imprenditori dell’auto torinesi.
 Cossiga, beninteso, era anche un atlantico al cromo-vanadio, e mal tollerava, anche se le comprendeva, le mie tentazioni golliste. Inoltre, e questo lo sanno tutti, era un perfetto conoscitore del meccanismo dell’intelligence.
 E qui occorre specificare: non era tanto interessato alle beghe e alle “cordate” che hanno sempre caratterizzato le burocrazie italiane, beghe che pure conosceva benissimo e sapeva anche usare, ma ai meccanismi profondi e alla logica interna del Servizio.
 Cossiga ragionava come il migliore analista della Struttura, sapeva collegare punti apparentemente lontanissimi tra di loro, era di gran lunga più bravo, poi me ne sono accorto, di gran parte degli ufficiali e dei dirigenti dei nostri Servizi. Che hanno talvolta avuto l’aria di fare gli Azzeccagarbugli, ma raramente hanno compreso in un lampo la complessità della situazione internazionale, che dovrebbe essere il loro lavoro, se usassero meno codicilli e commi.
 Spesso sono deformati da una eccessiva formazione militare, che serve poco per l’intelligence, che ha bisogno di meccanismi mentali più rapidi e di “pensiero laterale”, molti dei nostri analisti del Servizio hanno il difetto tipico della tradizione militare repubblicana: sono eccessivamente proni alla classe politica, che spesso non capisce un’acca di politica internazionale.
 Fece ridere, pochi anni fa, la visione di un Capo di Stato Maggiore (che peraltro Cossiga riteneva un cretino) che portava la borsetta della ministra della Difesa di turno.
 Cossiga amava i militari e i militari amavano lui, ma era durissimo nei confronti dei tanti nostri ufficiali che avevano scritta in volto la loro pigrizia intellettuale. O grande élite o “scarto della borghesia”, Cossiga si ricordava delle note di Curzio Malaparte sui “santi maledetti” della rotta di Caporetto.
 Il Presidente Emerito, poi, come Aldo Moro, altro grande esperto di intelligence, conosceva, e me ne parlava spesso, i limiti dell’azione e dell’autonomia italiana, sia in economia che in politica estera. E sapeva quanto della nostra Costituzione era stato determinato, per così dire, “dall’esterno”.
 Sapeva una buona parte, ma forse non tutto, del Deep State italiano, come quel gruppo che si radunò, per qualche tempo, in un palazzo istituzionale romano, per far entrare l’Italia subito nella prima fase dell’Euro, minacciando poi una “operazione Sansone” di abbattimento rapido della Lira per vanificare l’attuazione della moneta unica, se non ci avessero preso fin dall’inizio.
 Ecco, Cossiga, per quel che ho conosciuto a casa sua, era un selezionatore (a parte me, naturalmente) di uomini potenti, ma spesso ignoti ai più; di solito, per quel che ho visto, coltissimi, ma sempre titolari di quel potere che non si vede, e per questo è più potente di quello della politica tutta luci e rumori dei semi-potenti (e oggi veri impotenti). Era un amante della ragion di Stato e dei suoi grandi teorici: Mazzarino (adorava il suo “Breviario dei politici”) Botero, naturalmente il Machiavelli, che conosceva quasi a memoria e, ogni tanto citava con buffi accenti sardi.
 Non gli piacque “Mani Pulite”. Da vecchio conoscitore di Servizi, odorò subito qualcosa che non andava. Poi si riseppe, ma seppero solo quelli che dovevano sapere.
 Ma inserì l’avventura dei quattro magistrati di Milano nel contesto giusto: la fine della guerra freddae lo spostamento alla periferia dell’Europa del baricentro strategico dell’Italia.
 Ne parlammo molto. Io temevo che i quattro di Milano distruggessero la democrazia italiana lasciando un vuoto che sarebbe stato immediatamente riempito dal PCI e dai suoi, vecchi e nuovi, “compagni di strada”. Per Cossiga, però, la questione comunista era molto più articolata e complessa di quanto non lo fosse per me.
 Lui voleva il completamento della democrazia italiana, ovvero la piena trasformazione del PCI in un grande partito della sinistra, fuori ovviamente dall’orizzonte sovietico; ed ecco perché, forze forzando i tempi, fece nominare Massimo d’Alema premier.
 Gli americani ebbero la garanzia della nostra partecipazione alla stupida guerra nei Balcani, che pure aveva fatto gridare di rabbia un filoamericano del rango di Lamberto Dini, infine anche Massimo d’Alema ebbe la benedizione degli Usa, eravamo negli anni comici dell’”Ulivo Mondiale”.
 A Cossiga narrai la storia, tratta dalla mia frequentazione normalistica di Massimo, che pure era già fuori dalla SNS quando io vi entrai, di quando d’Alema fu nominato presso il Comitato Centrale del PCI, da giovane segretario, appena eletto, della FGCI. Insieme peraltro a quel gentiluomo e raffinato filosofo di Fabio Mussi, un uomo tanto gentile quanto intelligente.
 Massimo si mise a sedere con tutto il suo ordinatissimo set di penne, pennarelli, quaderni, lapis, gomme, ma venne subito redarguito da qualche vecchio dirigente che gli urlò che “qui non si prendono appunti e non si registra nulla”.
 Fatterello che descrive perfettamente il personaggio d’Alema. Cossiga, come Churchill, amava gli aneddoti e ne era ghiotto. Sapeva che sono segnali profondi.
 D’Alema, dopo la morte di Cossiga, è rimasto l’unico post-comunista, che io sappia, a conoscere e a frequentare la vera élite del potere italiana, spesso molto più potente del Paese che rappresenta, e che gran parte dei parlamentari, non dico dei semplici cittadini, nemmeno conosce.
 E che spesso faceva riferimento proprio a Cossiga. Che era anche un lettore ed esperto discutitore, da cattolico, di teologia cattolica. Senza di lui, Rosmini non sarebbe stato nominato Beato, come invece accadde nel 2007.
 Amava molto la figura, simbolicissima per un politico di alto livello, di Tommaso Moro, proprio Cossiga, che aveva un filo diretto con la protestante Thatcher, che lo stimava molto, e che era probabilmente il più filo-britannico, per gusti e mentalità, dei dirigenti politici italiani.
 Mi ricordo le sue note su Rosmini, le sue analisi del Concilio Vaticano II e la sua simpatia personale e teologica per molti dei sacerdoti dell’Opus Dei,alla quale però non aderì mai, ma era molto affascinato, e giustamente, dal carisma straordinario di San Josemaria Escrivà de Balaguer.
 Non era particolarmente interessato alla musica classica, ma studiava la storia e la politica internazionale ben più di un grande esperto. Ecco, ora mi sta lasciando solo sul divano, tra poco mi chiederà di andar via, che deve ricevere qualcuno. Ma mi diceva sempre chi era.

A dieci anni dalla morte di Francesco Cossiga il professor Marco Giaconi ha scritto per l’Osservatorio questo dettagliato ricordo “politico” dell’ex presidente della Repubblica, basato su una continua frequentazione personale del navigato statista sardo, da cui si può cogliere la grande attenzione e il grande interesse dedicati da Cossiga al ruolo dell’Italia nelle dinamiche politiche ed economiche del mondo a lui contemporaneo.

FONTE: http://osservatorioglobalizzazione.it/progetto-italia/francesco-cossiga-presidente-cattolico-intelligence-giaconi/

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