Di Riccardo Noury
Terminato il Gran premio di Formula 1,
che ha avuto l’involontario merito di far conoscere al mondo ciò che
accade in Bahrein, il sipario rischia di calare di nuovo sulla rivolta
in corso nel minuscolo regno del Golfo Persico, raggiunto oltre un anno
fa dalla primavera democratica scoppiata in Medio Oriente e Africa del
Nord.
Blogger, giornalisti, attivisti, sindacalisti, operatori sanitari,
insegnanti di ambo i sessi sono i protagonisti di un movimento di
piazza, che parlerà pure a nome della maggioranza sciita discriminata ma
che fa richieste universali e ascoltate in altre piazze,
sunnite, del mondo arabo: diritti, democrazia, uguaglianza, libertà.
Molti di loro sono in carcere, condannati dalle corti marziali a lunghe
pene detentive o persino all’ergastolo; come il difensore dei diritti
umani Abdulhadi al-Khawaja,
che ha iniziato due mesi e mezzo fa uno sciopero della fame che ha
superato la durata di quello portato avanti da Bobby Sands nell’Irlanda
del Nord nel 1981
A partire dal giorno di San Valentino dello scorso anno, il cuore della rivolta è stato piazza della Perla, al centro della modernissima capitale Manama. A metà marzo la protesta è stata stroncata nel sangue e nei mesi successivi,
con l’appoggio delle truppe dell’Arabia Saudita e del Kuwait, le forze
di sicurezza bahreinite hanno avviato la caccia al dissidente,
assaltando addirittura gli ospedali e licenziando migliaia di impiegati
pubblici sospettati d’infedeltà alla monarchia della famiglia al-Khalifa.
Il mondo non ha voluto vedere oltre la cortina fumogena alzata dal governo reale:
una cortina fatta non solo dei gas lacrimogeni usati irresponsabilmente
(e irresponsabilmente forniti da vari paesi, tra cui il Brasile)
durante le manifestazioni, i funerali o persino lanciati all’interno
delle abitazioni, ma anche di un abile esercizio di pubbliche relazioni
destinato a promuovere l’immagine di un paese stabile.
La scorsa estate, il re Hamad bin Isa al-Khalifa ha nominato una Commissione indipendente d’inchiesta
presieduta dall’insigne giurista Cherif Bassiouni. Questa Commissione
ha pubblicato un duro rapporto, addebitando alle forze di sicurezza uso
eccessivo della forza, arresti arbitrari, processi irregolari, torture e
uccisioni e sottoponendo una lunga serie di raccomandazioni per
ripristinare lo stato di diritto. Il re ha ringraziato e ha promosso
alcune riforme di facciata. Poco o niente è cambiato. Mentre protestavano per l’afflusso di armi russe alla Siria, Gran Bretagna e Usa hanno continuato ad armare il Bahrein.
La polizia del regno continua a sparare contro i manifestanti, anche coi
fucili caricati a pallini da caccia. Dal febbraio 2011, i morti sono
stati oltre 60. L’ultimo, sabato mattina, 24 ore prima del Gran premio.
La tortura resta diffusa: persone in stato d’arresto vengono sottoposte a
brutalità in luoghi di detenzione non ufficiali, compresi edifici
governativi non più in uso, veicoli della polizia e luoghi isolati del
paese.
Decine di persone restano ancora in prigione, nonostante siano colpevoli
solo di aver diretto o preso parte a manifestazioni antigovernative,
senza usare né invocare violenza.
Il caso giudiziario più clamoroso riguarda 14 esponenti dell’opposizione,
compreso al-Khawaja, arrestati a marzo e aprile 2011. Diversi di loro
sono stati torturati. In primo grado sono stati giudicati colpevoli di
vari reati tra cui “formazione di gruppi che diffondono il terrore per
rovesciare il governo del re”. In realtà, avevano chiesto la fine della
monarchia e un governo repubblicano. Il processo d’appello inizia oggi. Amnesty International ha lanciato un appello per la loro scarcerazione.
Da il Fatto Quotidiano
La rivolta dimenticata del Bahrein
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