Coronavirus, l’inquinamento aiuterebbe il contagio. Urge una drastica inversione di tendenza

mar 22, 2020 0 comments

Di Antonio Lumicisi

Leggendo e analizzando le informazioni che puntualmente ci arrivano da diverse settimane, non si può non notare che la pandemia di Covid-19 si è manifestata in maniera sempre più preoccupante in alcune delle aree più inquinate del mondo. In Italia, sono infatti le aree della Lombardia e del Veneto, e in particolare della pianura padana, le più industrializzate e nelle quali da più tempo persistono condizioni ambientali critiche.
Dovremmo porci seriamente la domanda per quale motivo proprio in quelle aree il Covid-19 sia esploso in modo così virulento. Bene ha fatto il governo italiano a decretare misure sempre più stringenti per confinare il contagio all’interno di aree più controllate, non certamente coadiuvato dall’insensatezza di coloro che, alla prima allerta, sono fuggiti; ci auguriamo che, laddove siano andati, si siano messi in quarantena preventiva e abbiano evitato di propagare il virus anche in zone al momento meno toccate.
Nella pianura padana, i livelli di concentrazione del particolato (Pm10) sono tra i più alti in Europa e nel mondo e questa situazione permane da ormai tanti, troppi anni. E’ conclamato che alti livelli di Pm10 creano problemi anche al sistema respiratorio che potrebbe, quindi, risultare più sensibile alle complicazioni dovute a questo nuovo virus. Più a lungo si è esposti a tale situazione di inquinamento, e maggiori potrebbero essere le probabilità che i nostri sistemi respiratori si siano indeboliti e, quindi, più in difficoltà a combattere contro gli effetti del coronavirus.
Un tale ragionamento potrebbe dare delle spiegazioni al fatto che, al momento, sono le persone anziane ad avere i maggiori impatti negativi che arrivano, purtroppo, anche ad esiti fatali. Gli anziani sono, per definizione, coloro che maggiormente sono stati esposti ad un fenomeno quale l’inquinamento e questa permanenza all’esposizione potrebbe aver indebolito il loro sistema di difesa.
Inoltre, da un recente studio della Società italiana di medicina ambientale (Sima) si evidenzia una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di Pm10 registrati nel periodo 10-29 febbraio e il numero di casi di Covid-19 aggiornati al 3 marzo (considerando un ritardo temporale intermedio relativo al periodo 10-29 febbraio di 14 giorni, approssimativamente pari al tempo di incubazione del virus fino all’identificazione dell’infezione).
Secondo questo studio, nell’area della pianura padana, le curve di espansione dell’infezione hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di due settimane, con le più elevate concentrazioni di Pm10. Quindi, le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio avrebbero prodotto un’accelerazione alla diffusione dell’epidemia.
Ricerche più specifiche andrebbero fatte disaggregando alcuni dati, ad esempio confrontare gli effetti su coloro che risiedono in tali aree da sempre, diciamo negli ultimi 50 anni, con quelli di coloro che vi si sono insediati di recente. Se si riscontrasse una netta distinzione tra la mortalità di coloro che hanno sempre vissuto in quelle aree rispetto ai nuovi insediati, allora potremmo approfondire per circoscrivere e differenziare meglio gli effetti di breve e lungo periodo all’esposizione di inquinanti.
Il paese che, come l’Italia, è un osservato speciale per il Covid-19 è, come ben noto, la Cina. E proprio in Cina si rileva la stessa similitudine riscontrata in Italia: le aree con i più elevati livelli di emissione di Pm10 sono le stesse aree ove la mortalità legata a questo virus risulta più alta. La provincia cinese di Hubei, focolaio principale del virus, è un’area che, al pari della pianura padana, riscontra alti livelli di Pm10.

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