Le testimonianze fornite dai servizi di sicurezza italiani sul caso di Giulio Regeni sono state fondamentali per delineare il quadro delle difficoltà e degli ostacoli incontrati durante le indagini, ma anche per chiarire il loro coinvolgimento diretto o indiretto nella vicenda. I servizi italiani, in particolare l’AISE (Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna), hanno contribuito a diverse fasi dell’inchiesta, sia attraverso contatti con le autorità egiziane sia mediante indagini interne.
Il capo dell’AISE all’epoca, Alberto Manenti, ha testimoniato di essere stato subito informato del ritrovamento del corpo di Giulio Regeni il 3 febbraio 2016. Manenti ha dichiarato che, non appena venne rinvenuto il corpo del ricercatore, il responsabile dell’intelligence italiana al Cairo fu messo al corrente dalle autorità egiziane, con le quali erano in corso contatti già dai giorni successivi alla scomparsa. Tuttavia, dalle testimonianze emerse durante i processi, risulta che le informazioni fornite dagli egiziani furono vaghe e reticenti.
Un punto importante della testimonianza riguarda i primi colloqui tra l’intelligence italiana e quella egiziana. Secondo Manenti, fu contattato il responsabile del GIS (General Intelligence Service), il principale servizio segreto egiziano, che inizialmente non fornì dettagli chiari sulle cause della morte di Regeni. Quando gli venne chiesto un resoconto preliminare, il suo omologo egiziano parlò di “cause naturali”, ma senza traumi evidenti, nonostante il corpo mostrasse chiari segni di tortura. Questo sollevò immediatamente sospetti tra gli agenti italiani.
Un altro punto cruciale è stato il chiarimento fornito dall’AISE e dalle altre agenzie italiane riguardo alla posizione di Regeni. È stato confermato che Giulio Regeni non aveva alcun legame con i servizi segreti italiani, né operava come agente o collaboratore per missioni di intelligence. Questa dichiarazione fu data anche in risposta alle insinuazioni egiziane che suggerivano che Regeni potesse essere una spia. Le autorità italiane hanno sempre sottolineato che Regeni si trovava in Egitto esclusivamente per scopi di ricerca accademica.
I servizi italiani, nel corso degli anni successivi alla morte di Regeni, hanno continuato a fare pressioni attraverso canali diplomatici e di sicurezza per ottenere informazioni più precise dalle autorità egiziane. Le testimonianze del capo dell’AISE hanno messo in luce il clima di forte ostruzionismo da parte delle autorità egiziane, che non hanno mai fornito una collaborazione completa. Il cosiddetto “muro di gomma” eretto dal Cairo ha complicato enormemente il lavoro investigativo.
L’AISE ha testimoniato anche riguardo ai rapporti con altre agenzie di intelligence straniere, come l’MI6 britannico, con cui si cercò di avere una collaborazione più ampia sul caso Regeni. Questi tentativi hanno portato ad ulteriori verifiche, ma senza produrre risultati decisivi. Le agenzie di sicurezza occidentali hanno condiviso la preoccupazione per il coinvolgimento delle forze di sicurezza egiziane nel caso, ma gli sforzi diplomatici e di intelligence non hanno potuto superare il blocco imposto dall’Egitto.
Nel corso del processo a carico dei quattro ufficiali egiziani accusati di essere coinvolti nel rapimento e nella tortura di Giulio Regeni, i rappresentanti dei servizi di sicurezza italiani hanno confermato la difficoltà di condurre indagini approfondite in Egitto. L’assenza di una cooperazione formale e l’ambiguità delle risposte egiziane hanno impedito di acquisire prove decisive nei primi momenti delle indagini.
Le testimonianze fornite dai servizi di sicurezza italiani dimostrano l’importanza del loro ruolo nell’ottenere informazioni cruciali, ma anche le enormi difficoltà incontrate nel rapporto con le autorità egiziane. Il caso Regeni rimane un simbolo della complessità geopolitica e della necessità di giustizia internazionale, poiché, nonostante gli sforzi dei servizi di sicurezza e diplomatici italiani, le autorità egiziane hanno ripetutamente evitato una collaborazione trasparente. Questo ha lasciato aperti numerosi interrogativi su cosa sia effettivamente accaduto a Giulio Regeni e su chi siano i veri responsabili della sua morte.
Giulio Regeni, ricercatore italiano dell’Università di Cambridge, stava conducendo uno studio sui sindacati indipendenti egiziani al momento della sua scomparsa, avvenuta il 25 gennaio 2016. Il suo corpo fu ritrovato nove giorni dopo, il 3 febbraio, in condizioni orribili, mostrando evidenti segni di tortura. L’episodio ha rapidamente attirato l’attenzione internazionale, sollevando forti sospetti sul coinvolgimento delle forze di sicurezza egiziane.
Dalle testimonianze emerge come le autorità egiziane abbiano eretto un “muro di gomma” per ostacolare la verità , rifiutando in pratica ogni cooperazione trasparente con l’Italia e la comunità internazionale. Questo comportamento ha sollevato preoccupazioni sul fatto che le autorità egiziane stessero coprendo i responsabili, i quali potrebbero essere collegati ai servizi segreti egiziani, come il GIS.
Nei mesi e anni successivi alla morte di Regeni, il governo italiano ha cercato in diverse occasioni di ottenere una verità completa e trasparente sul caso, ma le autorità del Cairo hanno ripetutamente fornito versioni contrastanti e poco credibili, spesso attribuendo la responsabilità a criminali comuni o insinuando che Regeni fosse una spia.
Dal punto di vista politico, il caso Regeni ha messo in crisi le relazioni tra Italia ed Egitto. Nonostante gli sforzi del governo italiano di fare pressione attraverso canali diplomatici, ci sono stati pochi progressi significativi. L’Italia ha ritirato temporaneamente il proprio ambasciatore dal Cairo nel 2016 come segno di protesta, ma è stata criticata per aver poi ristabilito le relazioni diplomatiche senza che vi fossero concreti passi avanti nelle indagini.
Secondo diverse fonti, l’Italia si è trovata in una posizione delicata a causa dei suoi interessi economici in Egitto, soprattutto nel settore dell’energia. La compagnia italiana Eni, infatti, è uno degli attori principali nello sviluppo dei giacimenti di gas egiziani, e il timore di compromettere questi rapporti ha spinto Roma a evitare una rottura definitiva con il Cairo, nonostante l’indignazione pubblica per la morte di Regeni.
Un elemento centrale della testimonianza condivisa riguarda il ruolo controverso dei servizi segreti, sia italiani che egiziani. L’ufficiale italiano riferisce di contatti con il suo omologo del GIS, i quali sono stati caratterizzati da ambiguità e silenzi. Il fatto che Regeni non fosse un agente dei servizi segreti, come confermato dalle indagini italiane, ha ulteriormente sollevato interrogativi sul perché le autorità egiziane avessero deciso di fermarlo e, presumibilmente, torturarlo.
Questo modus operandi, che prevede il fermo non ufficiale e la tortura di sospetti, sembra riflettere pratiche comuni dei servizi segreti egiziani, utilizzate per reprimere il dissenso interno. Negli ultimi anni, il governo egiziano ha intensificato le misure repressive contro oppositori politici, attivisti e giornalisti, e Giulio Regeni potrebbe essere stato vittima di questo contesto repressivo, scambiato erroneamente per una minaccia alla sicurezza del regime.
Il caso Giulio Regeni continua a essere un tema controverso nelle relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto. Le difficoltà incontrate dagli investigatori italiani, combinate con l’atteggiamento ostile e ostruzionistico del governo egiziano, suggeriscono che ci sia ancora molto da scoprire su cosa accadde davvero a Regeni. Il quadro politico generale rende ancora più complesso ottenere una giustizia piena, poiché gli interessi economici e geopolitici spesso prevalgono sulle questioni legate ai diritti umani e alla verità .
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