Da Mazzetta
La Cina espelle una corrispondente di al Jazeera dopo che l’emittente
ha mandato in onda un servizio sui Laogai. Ma anche negli Stati Uniti,
dove ha casa la battaglia contro i Laogai cinesi, la pratica del lavoro
forzato è una realtà
La decisione del governo cinese, che ha cassato il visto della
giornalista senza concederne altre all’emittente, lascia al Jazeera
orfana delle corrispondenze dalla Cina. Il documentario non dice niente
di nuovo. Intervista Harry Wu, storico alfiere cinese della lotta
contro i Laogai riparato negli Stati uniti e descrive un sistema per il
quale i prigionieri delle carcere cinesi sono affittati ad
imprenditori che poi operano come terzisti, anche per i grandi marchi
dell’export, dissimulando in questo modo l’apporto di questa
particolare manodopera. Wu è anche il paladino di gruppi di vecchi
anti-comunisti ora anti-cinesi vicini alla destra americana, che però ai diritti civili degli americani porgono poca attenzione.
La concezione comunista della rieducazione-riabilitazione del reo o del
soggetto deviante dall’ortodossia ideologica attraverso il lavoro,
informa ancora il sistema carcerario cinese e l’esistenza dei laogai non
deve stupire, nonostante l’assonanza con la parola lager che evoca
tristi ricordi e nonostante l’orrore che le pratiche descritte nel
documentario possono suscitare in alcuni, sistemi simili ai laogai sono
in vigore in molti altri paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti.
Gli USA hanno la popolazione carceraria forse più alta al mondo in
termini percentuali, spesso ospitata in carceri gestiti da società
private, buona parte della quale lavora in condizioni non dissimili da
quelle dei laogai, che giustamente in Occidente fanno gridare alla
schiavitù.
Che differenza c’è tra il cinese nel laogai e il detenuto americano che lavora per un’azienda bellica americana a ventitrè centesimi di dollaro l’ora senza
le protezioni e la “sicurezza” garantita ai suoi colleghi liberi? Che
differenza c’è tra il cinese che laora per “rieducarsi” e l’americano
al quale è offerto “il privilegio” di lavorare? Che differenti
alternative Hanno il cinese e l’americano, se il rifiuto di lavorare
comporta per entrambi la cancellazione di diritti come le ore d’aria e
di socialità, l’isolamento, le botte da parte dei secondini o un
allungamento della pena per una condotta non buona?
Un fenomeno che negli Stati Uniti si è diffuso al punto di determinare la chiusura di stabilimenti produttivi,
perché quelle produzioni sono state spostate nelle carceri e al punto
da trasformare i gestori delle carceri in fornitori di manodopera
low-cost alle principali industrie del paese, su tutti i marchi più
famosi. Tutto alla luce del sole, alcune di queste sono persino società
quotate. Un fenomeno che negli Stati Uniti è culturalmente accettato
senza grossi problemi, anche per questo Hu e gli aticomunisti d’antan
che lo hanno sempre sostenuto non hanno mai avuto un gran successo, agli
americani l’idea dei lavori forzati piace tantissimo e negli USA sono
diffusissimi, anche se non previsti da nessun codice.
Non diversamente nel nostro paese, dove la distanza culturale tra la
cultura che informa il codice penale e quella che esibiscono politici ed
opinione pubblica è enorme e dove le pene dei carcerati non commuovono
nessuno. Al contrario non è difficile ascoltare richieste per
l’introduzione anche da noi dei lavori forzati e tutta una serie di
banalità per le quali le carceri sarebbero alberghi e i detenuti dei
fortunati parassiti mantenuti dalla brava gente che lavora.
Se i cinesi se ne fossero resi conto, probabilmente non avrebbero
reagito minimamente al documentario di al Jazeera, ma evidentemente
scontano ancora qualche ritardo che li mostra ingenuamente preoccupati
per una questione di civiltà che invece, nei paesi che si propongono
come fari di civiltà, è già stata affondata miseramente in favore della
barbarie e dello sfruttamento.
Fonte: http://ienaridensnexus.blogspot.it/2012/05/lo-scandalo-dei-laogai-in-cina-e-negli.html
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