Teriofobia

mag 5, 2012 0 comments
Di Marco Maurizi
1. La teriofobia, cioè la “paura degli animali” (dal greco therios, belva, e phobos, paura), è una caratteristica strutturale della civiltà. Essa è divenuta un luogo comune, una delle tante ovvietà che, proprio perché ovvie, nascondono molto più di quanto non dicano a prima vista. “Si sa” che la civiltà ci “protegge” dal pericolo rappresentato dalla natura “selvaggia”. Dall’antichità fino ad oggi, ci rappresentiamo il nostro dominio sul resto del vivente nella forma di una legittima difesa: “il compito principale della civiltà, la sua propria ragion d’essere, è di difenderci contro la natura”.[1] Pur ammettendo che l’intelligenza e la cooperazione abbiano permesso all’umanità di proteggersi dall’aggressione di fiere fameliche e altri pericoli naturali, è del tutto evidente che il nostro attuale dominio sul pianeta, se davvero dovesse giustificarsi in questi termini, dovrebbe qualificarsi come un mostruoso esempio di eccesso di legittima difesa.
2. La realtà, tuttavia, è ben diversa. Ciò che fa paura è semplicemente l’oggetto di una rimozione, ciò che deve essere sacrificato, addomesticato, respinto o, al limite, eliminato perché lo spazio dell’esperienza umana possa chiudersi e compiersi senza resti, ostacoli, disturbi. La civiltà poggia su una contrapposizione tra umano e non-umano che struttura sia materialmente che simbolicamente ogni aspetto dell’esperienza umana. Che si tratti della “natura esterna” prima cacciata e poi addomesticata o della “natura interna” che deve venir coltivata secondo il principio di prestazione vigente, “per fare un uomo” ci vuole il dominio materiale e simbolico sull’animale: sia quello non-umano, sia quello umano[2]. Ed è così che quell’opposizione fondamentale tra umano e non-umano regola tutte le altre opposizioni di cui è intessuta la nostra esperienza sociale: tra “uomo” e “animale”, tra “cultura” e “natura”, tra “razionalità” e “sentimento”, tra “conscio” e “inconscio”, tra “anima” e “corpo”, tra “maschio” e “femmina”, tra “adulto” e “bambino”, tra “residenti” e “stranieri” ecc. Il secondo termine assume sempre il ruolo passivo-negativo-materiale rispetto ad un principio attivo-positivo-formante che deve dominare e mantenersi “puro”, incontaminato dall’Altro. In questo meccanismo che anima la dialettica della civiltà ognuno deve essere disposto a sacrificare una o più forme dell’animalità (sia dentro che fuori di sé) per poter essere ammesso nel cerchio rispettabile dell’umano. In tal senso, come scrivono Adorno e Horkheimer, la storia della civiltà è la storia dell’“introversione del sacrificio”.
 L’esistenza naturale, animale e vegetativa, era per la civiltà l’assoluto pericolo…Il ricordo vivo della preistoria, già delle fasi nomadi, e tanto più delle fasi propriamente prepatriarcali, è stato estirpato dalla coscienza degli uomini, in tutti i millenni, con le pene più tremende…L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia.[3]
Ciò che resta “fuori” da questo gioco di esclusione/inclusione, rimane come minaccia, ritorna come un fantasma, assilla come un incubo il Sé “identico, pratico, virile” necessario per adeguarsi alla società classista, con i suoi conflitti endemici, la sua violenza diffusa e capillare, la sua logica di prestazione e competizione. Tutto ciò che nega quell’identità, quella praticità, quella virilità è oggetto di paura perché alberga, oscuro e inascoltato, alla radice del meccanismo stesso che, rimuovendolo dall’esperienza “umana”, rende quest’ultima possibile.
3. È ormai da secoli che ci è risparmiata la possibilità di avere effettivamente “paura” degli altri animali, eppure la società capitalistica tecnologicamente sviluppata, totalmente urbanizzata, che non si limita più solo a dominare la natura dall’esterno ma oggi si ripromette di riprogrammarla geneticamente secondo i propri bisogni, continua ad aver paura degli animali non-umani. Questa paura non sarebbe giustificabile se dovesse basarsi sui dati di fatto. Esattamente come nel caso dei fenomeni migratori, allucinatoriamente esasperati dall’opinione pubblica fino a farli diventare “ondate” di “barbari” e “stupratori” a dispetto di ogni statistica, così il ruolo degli animali nella nostra società continua ad essere vissuto come una fantasia delirante e persecutoria.
La strategia linguistica che lo specismo mette in opera per stabilizzare e giustificare l’ordine dello sfruttamento modifica infatti l’esperienza reale del terrore animale preistorico trasformandola in falsità e inganno. A fronte dell’immane potenza con cui le società umane schiacciano sotto il proprio giogo il resto del vivente, la risibile affermazione del “pericolo” rappresentato dagli animali non cessa di risuonare nei titoli strillati dei mass media (si pensi alle consuete notizie allarmistiche sui cani “mordaci”, sulle fughe di “fiere” da circhi e zoo o, di recente, sui “lupi” che, approfittando delle abbondanti nevicate nel centro Italia, sono “tornati” a seminare paura in alcuni paesi) e più sotterraneamente, ma non meno efficacemente, nelle nostre coscienze. Solo se l’altro è reso un “mostro”, è immaginato come più potente e più forte di noi può essere vissuto come minaccia e il nostro atteggiamento nei suoi confronti può assumere i tratti auto-assolutori di un atto di legittima difesa. Si tratta del meccanismo in base al quale viene decretata nell’immaginario la “superiorità degli inferiori” per poterli più comodamente opprimere nella realtà: una “procedura simbolica che fa dell’altro o dell’altra un monstrum, comunque un essere dotato di una potenza o di un potere smisurati o anomali”[4]. Il migrante “sporco” o “stupratore”, la donna “emotiva” o “seduttrice”, l’animale “infestante” o “famelico”: tutti riferimenti ad una natura selvaggia, cieca e indomita cui la civiltà contrappone il proprio ordine razionale, libero e giusto. Come osserva Melanie Bujok, “la paura del non-dominato esige ordine. Il ‘mostro’ animale deve essere chiamato per nome per mantenere la distanza emotiva, cognitiva e sociale e non permettere che alcun dubbio ostacoli il sacrificio degli animali”[5]. In tal modo, “ogni singolo attacco di un individuo animale nei confronti di un umano viene universalizzato come attacco ‘degli animali’ all’umanità che giustifica l’intervento totale e violento delle istituzioni sociali nei confronti di ogni singolo individuo animale. […] Il morso di un cane legittima un’intera epoca di sofferenze per gli animali, […] l’animale viene accusato di essere una possibile minaccia, per potergli negare ogni solidarietà […], per impedire che gli animali possano aspirare alla giustizia”[6]. Il carnefice si discolpa accusando la vittima inerme.
4. Ma la strategia auto-assolutoria dello specismo si muove anche su un altro livello. Essa considera infatti un pericolo non solo l’oggetto della sua rimozione violenta (la natura umana e non-umana “addomesticata” dalla società), ma anche coloro che ricordano questa rimozione e, così facendo, la denunciano. Gli animalisti, i veg*ani e gli antispecisti sperimentano sulla propria pelle l’effetto di ritorno di quella violenza esercitata sugli animali non-umani nella forma di un perenne ostracismo di cui sono fatti oggetto dal resto della società. Tutto ciò non è affatto un caso. Se è vero, infatti, che la “rimozione dell’animale”[7] costituisce lo sfondo su cui si erge l’intera civiltà del dominio, coloro che attestano la propria simpatia verso il non-umano, coloro che ne riconoscono la vicinanza empatizzando con la sofferenza di cui gli animali non-umani sono vittime, coloro che rifiutano di disconoscerne l’abissale diversità, irriducibile al recinto dell’“animalità” cui vorrebbe costringerli la cultura antropocentrica, sono proprio coloro che non accettano quel sacrificio su cui si fonda il “Sé identico, pratico, virile”.
(1) Contro l’identità. Chi denuncia la violenza sugli animali denuncia la falsità su cui è costruita l’identità umana in quanto non-animale, denuncia cioè l’astrattezza di una definizione di “umano” che si fonda su un duplice gesto paranoide: l’accorpamento di tutti gli altri esseri viventi in un calderone indiscriminato (l’Animale) e la costruzione di una barriera gerarchica e auto-immunizzante tra “noi” e “loro”.
(2) Contro l’agire “pratico”. Chi denuncia lo specismo, la prassi di sfruttamento della natura non-umana, denuncia anche il comportamento “pratico” dell’uomo della strada, di chi non vuole sentire tante storie e agisce sicuro di sé perché “si fa così”. Denunciando comportamenti solitamente accettati come “normali”, “razionali”, di “buon senso”, si mostra che tale normalità, tale razionalità, tale buon senso sono 1) dei costrutti sociali e, come tali, non valgono assolutamente ma solo per il tipo di società che si è storicamente imposto; e 2) che tale comportamento è intriso di violenza e di sopraffazione ed è quindi in contraddizione con gli ideali di giustizia, di libertà, di solidarietà che dovrebbero costituire la quintessenza della “civiltà” e che invece, nella loro declinazione antropocentrica, ne rappresentano l’assoluta negazione.
(3) Contro la virilità. Infine, chi denuncia l’indifferenza verso la sofferenza animale denuncia anche il modello psicologico socialmente accettato, ne denuncia lo squilibrio tra razionalità ed emotività. Spesso si accusa chi denuncia la violenza sugli animali di essere “troppo” emotivo (se non, addirittura, “femmineo”) o di pretendere da altri una solidarietà verso gli animali che non può essere “obbligatoria”, poiché sarebbe imperscrutabilmente iscritta nel cuore del singolo e, come tale, non potrebbe essere oggetto di alcuna richiesta perentoria. Questo tipo di considerazioni (su cui, purtroppo, gli stessi animalisti cadono facilmente quando accusano gli altri umani di essere “cattivi”) sorvola su ciò che il sociologo Zygmunt Bauman ha chiamato “la produzione sociale dell’indifferenza morale”[8]. Per spiegare come sia stato possibile che migliaia di tedeschi, cittadini esemplari, educati, spesso culturalmente raffinati, buoni padri di famiglia ecc. avessero potuto partecipare senza remore morali al massacro degli ebrei, Bauman sottolinea come i meccanismi della solidarietà e dell’avversione morale siano socialmente costruiti, come, in sostanza, l’empatia non sia misurabile individualmente bensì socialmente. Gli antispecisti, oggi, testimoniano di una possibilità che l’attuale società nega con tutte le sue forze: che è possibile un’organizzazione sociale diversa fondata non sulla logica della repressione, dello sfruttamento dell’altro, dell’accumulazione e dell’espansione, bensì sull’uguaglianza sociale, sul riconoscimento e la valorizzazione della diversità, sul godimento, il gioco, il dono.
5. Chi ragiona in questo modo, chi chiede il “perché?” dietro ogni violenza istituzionalizzata, chi immagina un mondo diverso, chi testimonia con la propria vita la possibilità di un’altra vita, è allora oggetto di quel terrore panico che coglie ogni membro di questa società quando le pareti della quotidianità vacillano e mostrano come ciò che appare “naturale” e “ovvio” non sia altro che un costrutto, un palcoscenico, una finzione. Ecco allora che chi ragiona contro la razionalità dominante sragiona, è un folle. Chi chiede conto della sopraffazione è un’anima bella, un emotivo che non sa accettare la durezza della vita. Chi apre l’occhio dell’anima al di là dell’orizzonte del presente è un sognatore, un acchiappa-nuvole, uno che non sa “come stanno veramente le cose” (in realtà lo sa fin troppo bene e se lo “stato di fatto” non gli va è disposto ad urlare, assieme ad Hegel, “tanto peggio per i fatti!”). Chi sceglie di rendere la propria vita una testimonianza di questa possibilità negata, chi sceglie di non mangiare carne, di non usare prodotti animali di alcun tipo, è un estremista, un “talebano”, uno che vuole imporre il proprio punto di vista. Certo, è vero che spesso gli animalisti dimenticano che “non c’è vita vera nella falsa”[9] e attribuiscono troppa importanza al proprio “stile di vita”, ma ciò non cambia il ruolo che essi oggettivamente svolgono nell’inceppare il meccanismo del dominio: essi fanno paura, non perché rappresentino un pericolo immediato (nonostante statistiche trionfalistiche sul numero dei vegetariani nel mondo l’antispecismo è ancora consapevolezza di un’esigua minoranza) ma perché rappresentato un pericolo reale e radicale a livello sistemico. Per questo, nonostante la loro esiguità numerica, gli animalisti hanno da sempre suscitato scherno e fastidio, tattiche di dissimulazione della reale percezione del “pericolo” che essi rappresentano per l’attuale ordine sociale. Queste tattiche scattano in modo assolutamente automatico e inconscio nell’interlocutore specista di turno, a dimostrazione di quanto radicata sia la “rimozione dell’animale”. Altra dimostrazione di quanto sia proprio questo meccanismo ad essere solleticato da ogni attestazione di simpatia verso la sofferenza degli altri animali è la terribile stereotipia che caratterizza le risposte. Anche quando vengono pianificate dall’alto in apposite campagne, infatti, è facile constatare l’assoluta prevedibilità e ripetitività delle critiche che la prospettiva antispecista suscita. Esse vanno invariabilmente a difendere quella “identità”, quella “praticità” e quella “virilità” di cui è costituito il Sé dell’uomo civilizzato: ora saranno “ovvie” (e dunque solitamente fallaci) considerazioni sulla “diversità” e/o “superiorità” tra “noi” e “loro” (o, inversamente, “anche loro lo fanno/farebbero con noi, dobbiamo difenderci”); ora saranno considerazioni sul fatto che “sarebbe bello se…ma è impossibile” (“dove metteremo le mucche?”, “su chi sperimenteremo?”, “anche l’agricoltura è violenza” ecc.); ora sarà la necessità di non farsi prendere dall’emozione e invece “ragionare seriamente”. La solfa suona ormai talmente poco credibile che recentemente il New York Times ha indetto una grande consultazione alla ricerca delle “ragioni etiche per mangiare carne”, a dimostrazione che la nostra caparbia testimonianza comincia ad intaccare il muro dell’indifferenza socialmente prodotta e delle sue certezze automatiche ed auto-assolutorie.
6. Ogni attivista o simpatizzante per i diritti animali ha da tempo fatto sulla propria pelle l’esperienza di come la teriofobia sia pervadente, quasi asfissiante. All’inizio questa esperienza è stata vissuta in forma individuale, generando necessariamente sensazioni di solitudine e sconforto, della serie “loro” non “mi” capiscono. Aggregandosi ad altri simpatizzanti verso la sofferenza animale, si è poi inevitabilmente tentato di uscire dal senso di isolamento attraverso una coscienza collettiva: la propria scelta ha così guadagnato i contorni netti di una scelta condivisa e quindi non più tanto assurda. Il “noi” ha sostituito l’“io” della pratica individuale rafforzandosi nella forma di uno “stile di vita” condiviso[10]. Ciò ha avuto un effetto distorcente anche sul modo in cui la teriofobia è stata teorizzata all’interno del movimento di liberazione animale. Si è infatti parlato di “vegefobia” come della “discriminazione” di cui sarebbero fatti oggetto i veg*ani e del modo in cui tale discriminazione sia, in realtà, una mossa per mettere a tacere ancora una volta la voce degli animali, rappresentati metonimicamente da chi sceglie di non mangiarli. Con questo mi sembra si sia detto al tempo stesso troppo e troppo poco.
Troppo perché, come è stato da più parti obiettato a chi denunciava la “vegefobia”, è particolarmente infelice parlare di “discriminazione” per il fatto di essere talvolta derisi a tavola o perché la mensa scolastica non offre pietanze adeguate. Si possono raccogliere tutte le testimonianze di questo mondo o tacciare l’intero sistema mediatico di atteggiamenti derisori o persecutori nei confronti dei veg*ani, ciò non cambia il dato di partenza: a fronte della violenza e del sangue che storicamente grondano dalla parola “discriminazione” è un chiaro atto di formalizzazione e di spoliticizzazione definire “discriminatori” questo tipo di fenomeni[11]. La violenza e il sangue, si dirà, non saranno quelli dei veg*ani ma sono quelli degli animali. Certo, solo che il problema di questi ultimi non è il loro essere “discriminati” (come vuole l’antispecismo che prende le mosse da Singer), bensì il loro essere “sfruttati”. Il discorso sulla vegefobia non solo non aiuta a chiarire la differenza e ad articolare il rapporto tra discriminazione e sfruttamento, ma addirittura confonde ancora di più le cose, parlando della discriminazione degli animali attraverso la discriminazione degli umani. Si tratta di un pericoloso cedimento all’ideologia liberale che ha portato alla pratica del politically correct: quest’ultima sublima la lotta materiale di gruppi oppressi dentro specifici sistemi di potere nell’ecumenico riconoscimento della diversità a livello discorsivo, attraverso pratiche ben oleate e amministrate di cooptazione delle classi dirigenti di quegli stessi gruppi e il riconoscimento di diritti formali che non intaccano gli interessi materiali che profittano della loro oppressione. A chiunque è oggi permesso denunciare la “discriminazione” di cui è fatto oggetto in quanto membro di un gruppo X (religioso, etnico, di orientamento sessuale e ora…alimentare!), purché ciò non modifichi gli assetti di potere vigente. Inserendosi dentro questa logica sistemica, il discorso sulla “vegefobia” banalizza ciò che storicamente è sedimentato nella parola “discriminazione” accogliendone l’incarnazione liberale che alleggerisce e appiattisce i conflitti politici sterilizzandoli e armonizzandoli in conflitti di opinione.
Si potrebbe obiettare che in realtà il discorso sulla “vegefobia” è più radicale del discorso liberale perché tenta di dare voce al gruppo oppresso che è oggetto dello sfruttamento più feroce:  a suo supporto è stato infatti elaborata la teoria della “negazione simbolica” degli animali attraverso la discriminazione dei veg*ani. In sostanza, denunciare la “vegefobia” è un modo per ricordare come sia la voce stessa degli animali uccisi ad essere silenziata attraverso la “discriminazione” dei veg*ani. Ma su questo versante del discorso la “vegefobia” dice invece troppo poco. Come abbiamo visto, infatti, non è il fatto di astenersi dal “mangiare carne” di per sé a provocare la reazione sarcastica, stizzita o autoritaria denunciata come “discriminatoria”. È il fatto di mostrare solidarietà con la vita animale (umana e non-umana) che costituisce l’architrave del sistema sociale vigente a far scattare il meccanismo difensivo che porta alla derisione o al linciaggio (per fortuna solo simbolico) di chi esercita quella solidarietà. La “vegefobia” non permette di spiegare il risentimento nei confronti di chi si oppone alla sperimentazione animale, di chi protesta contro una sfilata di pellicce o una sagra di animali. La teriofobia sì. Essa si radica nelle viscere nere dello specismo sociale e ne estrae la bile più violenta di fronte al gesto più gentile e allo sguardo più compassionevole. Questa l’assurda legge del contrappasso che va spiegata e lo si può fare solo collegando la genesi e la struttura della civiltà con la rimozione dell’animale e la conseguente paura che il suo ricordo suscita.
L’animalista, il veg*ano e, ancor di più, l’antispecista come testimoni di una vita irriducibile alla “normalità” dell’attuale sistema sociale e politico, producono con la loro semplice esistenza una crepa insopportabile nel Sé individuale e collettivo, nelle sue certezze, nelle sue priorità, nei suoi valori. Questo basta per far montare l’angoscia diffusa di “conti che non tornano”, di un senso di colpa che non riguarda solo il sacrificio degli animali non-umani ma anche di tutto ciò che dentro il soggetto è stato necessario cancellare o mettere a tacere perché la normalità potesse esercitarsi indisturbata a fronte di tanta violenza. La mortificazione dell’animale umano è il contrappunto alla messa a morte dell’animale non-umano. Chi anche solo dice di voler rifiutare tutto ciò risveglia una paura ancestrale, smisurata come tutto ciò che appare retrospettivamente alla memoria nello specchio deformante dell’infanzia.

[1] S. Freud, L’avvenire di un’illusione in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 19928, p. 155.
[2] Ho esposto in modo più dettagliato questi temi in M. Maurizi, Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà, Novalogos, Aprilia 2011.
[3] Th. W. Adorno – M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1994, p. 50.
[4] A. Rivera, La bella, la bestia e l’umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo, Diesse, Roma 2010, p. 105.
[5] M. Bujok, “La resistenza contro lo sfruttamento animale. Riflessioni sul rapporto tra società razionale e liberazione animale a partire dalla Scuola di Francoforte”, in M. Filippi – F. Trasatti, L’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia, Mimesis, Milano 2010, p. 254.
[6] Ibid.
[7] F. Trasatti, La rimozione dell’animale, su «Liberazioni.org»
[8] Z: Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 2010, p. 38.
[9] Th. W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 1994, p. 35.
[10] Ho già denunciato altrove il rischio identitario di questo atteggiamento, soprattutto perché finisce per confondere la lotta contro un sistema sociale, economico e culturale – e dunque una scelta politica, cioè un’idea diversa di società  – con la testimonianza individuale o al massimo di tanti individui che condividono la stessa scelta individuale – e dunque una scelta morale. In tal modo, si è confuso l’antispecismo con il veganismo, cioè l’idea alternativa al presente con una pratica individuale, invece di elaborare una strategia complessa e a lungo respiro che ci permetta non solo di essere gli ingranaggi fuori posto della meccanica sociale, ma anche la forza interna che smonta la mega-macchina per ricostruirla in modo non oppressivo e volgerla ad altri fini.
[11] In maniera non dissimile da coloro che parlano di “olocausto animale”, facendo così perdere ogni specificità storica e politica alla Shoah.

Fonte:Asinus Novus

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