Il grande romanzo sino-americano da Nixon a Trump

gen 18, 2020 0 comments

Di Verdiana Garau

È di pochi giorni fa la notizia dell’apertura della Fase Prima sugli accordi commerciali tra Cina e Stati Uniti d’America che pongono “una tregua” tra le due potenze, come è stata definita dagli esperti, e che sanciscono l’inizio della fine di una guerra commerciale in atto da un paio di anni.
Trump aveva già fatto sapere al mondo intero con un tweet a metà dicembre scorso, come avrebbe desiderato procedere. Il risultato è stato ottenuto, la Cina ha condisceso ai cambiamenti strutturali richiesti e ad un massiccio acquisto di prodotti agricoli, energetici, manifatturieri dagli Stati Uniti importanti per il suo MidWest. I dazi non sono stati imposti e le negoziazioni della Fase Seconda potrebbero iniziare a breve entro l’anno. Non ci resta che attendere.
Molti restano comunque i dossier ancora aperti sul tavolo, da Taiwan ad Hong Kong, al Giappone e la Corea del Nord, ma anche gli equilibri in Medio Oriente soprattutto in relazione alle recenti destabilizzazioni in Iran, paese che trova il primo alleato proprio nella Cina e dove si incastra l’ingerenza e il termometro russo, tutti come fattori potenzialmente destabilizzatori di una politica internazionale che potrebbe alla lunga isolare la governance cinese.

Only Nixon could go to China

Di nuovo nella storia, per la seconda volta, gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo di contenimento nei confronti del gigante cinese di una portata paragonabile agli anni ’70 del secolo scorso, quando durante la reggenza Nixon si cominciavano ad intravedere i segnali della fine della guerra fredda tra Stati Uniti e URSS.
In quegli anni gli incontri tra il governo americano e quello cinese si tenevano a Varsavia e molteplici erano stati i tentativi per trovare soluzioni che ponessero al centro dell’attenzione non solo il commercio, i dazi, gli spazi di attività che erano stati congelati all’indomani del 1949 o la fine dei conflitti indocinesi che erano in corso come quello del Vietnam, o Taiwan che veniva definito ormai “argomento classico da Comma 22”, ma il dialogo.
Gli incontri avvenivano di routine, ormai da quindici anni, ad intervalli regolari, senza mai giungere a conclusione alcuna e con un raffreddamento diplomatico dovuto alla scarsa capacità degli incaricati di cogliere quelle occasioni per poter portare a Varsavia un messaggio che fosse diverso.
Gli ambasciatori americani a Varsavia non venivano scelti in base alle loro competenze in materia cinese, ritrovandosi così a svolgere il ruolo di sterili rappresentanti, senza potere diplomatico alcuno, portatori di voci filtrate varie volte attraverso la burocrazia interna e attraverso le posizioni di paesi amici, consegnando lettere e ricevendo lettere e niente di più.
Dagli anni cinquanta i politici americani avevano una considerazione della Cina molto ponente-centrica, per loro era il regno della prolificità, del caos, del fanatismo, delle diversità, difficile da comprendere e impossibile da influenzare.

Geopolitica del maoismo

Anche le posizioni sulla guerra del Vietnam, tra i protagonisti politici precedenti a Nixon, convergevano sulla convinzione che il conflitto fosse un’opera volta a contenere l’espansionismo cinese e che la rivoluzione culturale di Mao fosse stata solo un’ossessione ideologica.
Niente di più sbagliato. Innanzitutto, intentare paragoni tra storie e civiltà differenti non può mai essere troppo costruttivo soprattutto se i paragoni intendono porre una storia o una civiltà superiore all’altra nelle diversità. Secondo, “l’ossessione ideologica” di Mao, se letta dal punto di vista fenomenologico, avrebbe dovuto essere contestualizzata in un quadro geopolitico mondiale che dallo scoppio delle due guerre mondiale è andato mutando profondamente per il pianeta intero, risultando infine un “adattamento”, piuttosto che una ottusità ideologica. Inoltre, il protrarsi del conflitto in Indocina mise la Cina in una maggiore posizione di difesa, poiché i cinesi erano convinti che l’operazione potesse essere il trampolino di lancio per un attacco americano al paese di mezzo che loro in realtà volevano assolutamente evitare.
Infine i rapporti tra Stati Uniti e Cina faticavano a trovare conclusive soluzioni per mancanza di comprensione da entrambe le parti.
La parsimonia verbale e la laconicità cinese, la loro arte dell’elusione, male interagiva con l’insistenza americana, caratterialmente sempre all’assalto.
Fu così che dopo ben 134 incontri avvenuti in venti anni tra gli Stati Uniti e la Cina senza il minimo accenno di accordo, Nixon si decise a intentare la strada per una nuova proposta, sottolineando più volte che nessuna intenzione di condominio con l’Unione Sovietica riguardava il loro approccio e che il loro invito al dialogo offriva di prendere in considerazione l’invio di una rappresentanza a Pechino per avere colloqui diretti con i loro funzionari o viceversa, accogliere a Washington una rappresentanza del loro governo per intentare più ampie esplorazioni che avrebbero potuto aiutare un potenziale accordo fra le parti.
Era il 1970, le condizioni di salute di Mao si facevano precarie e Zhou En Lai, primo ministro e ministro degli affari esteri poi per la Repubblica Popolare Cinese, era il maggior esponente del Partito Comunista Cinese dedito alle relazioni diplomatiche interne ed esterne. I cinesi mostravano di essere soprattutto preoccupati dell’Unione Sovietica e del possibile risveglio del militarismo giapponese, meno dei rapporti con gli Stati Uniti e Zhou En Lai comprese che la guerra in Vietnam stava per cessare.
Gli Stati Uniti dalla loro parte non avevano idea di come approcciare i cinesi, data la loro chiusura e il loro isolamento durato venti anni fino a quel momento.
Così l’approccio americano prese l’aspetto di un gesto politico e la manovra fu eseguita con il timone economico.
La strada si sarebbe aperta se gli americani avessero usato le loro armi diplomatiche, delicatezza ed abilità.

La rottura del ghiaccio tra Nixon e Mao

Un altro scoglio che Nixon e il suo emissario Kissinger avrebbero dovuto superare erano le controversie interne al Dipartimento di Stato che sempre si mostrava recalcitrante ad ogni iniziativa più intraprendente.
Si inserirono infatti proprio in quel momento, nella loro manovra diplomatica, le problematiche scatenate dagli eventi della Cambogia. Gli Stati Uniti furono accusati di incursione nei santuari cambogiani dai cinesi e la Cina offrì così a Sihanouk (governatore della Cambogia) di dare asilo politico al suo governo e al suo esercito di liberazione e rinviò il 136esimo incontro previsto con gli Stati Uniti, a cui Kissinger e Nixon stavano lavorando, a data da decidere.
Diplomaticamente per gli Stati Uniti questo significò molto: i cinesi innanzitutto non si sottraevano al dialogo nonostante l’arresto, ma volevano essere più che sicuri che la minaccia di un potenziale condominio russo-americano contro i loro interessi fosse del tutto vanificato.
Fu in quel contesto che Mao definì gli Stati Uniti “una tigre di carta” e pose l’accento sulla qualità della sua politica, dicendo che l’espansionismo cinese era dato dall’affidabilità dell’area che avevano alle spalle.
In quel contesto di relazione triangolare USA, USSR e Cina, in cui l’Unione Sovietica ammonì la Cina per essersi sottratta ad una azione comune in Cambogia e i cinesi assunsero posizione difensiva nei confronti di entrambe, era chiaro che sia Cina che URSS avevano paura che gli Stati Uniti potessero appoggiare o l’una o l’altra potenza secondo bisogno e fu anche chiaro che né l’Unione Sovietica né la Cina avessero in mente di costituire alcun blocco comune sotto la bandiera comunista, ma si trovavano altresì coabitatori di un enorme spazio come l’Asia con in comune quasi 7000km di confine.
Inoltre, Mao incitò pubblicamente a quel punto l’Indocina esortandola ad unirsi contro la potenza americana, suscitando ancora di più l’astio da parte di Mosca, ma soprattutto non trovando appoggio da Hanoi che ringraziò e declinò l’invito.  
Gli americani inviarono comunque una flotta nello stretto di Taiwan per apparire in stato di belligeranza, anche se di fatto non accadde nulla, facendosi forti del potere deterrente.
La Cina entrò probabilmente in crisi internamente e da quel momento venne palesata al mondo intero la natura degli intenti di Nixon: “Forse non sarà possibile definire questo ruolo in cinque anni, forse neppure in dieci. Me entro venti anni sarà bene che ciò avvenga, altrimenti il mondo si troverà in mortale pericolo. Se c’è qualcosa che voglio fare prima di morire, è andare in Cina. Se non lo faccio io, voglio che lo facciano i miei figli”. (Time, intervista a Nixon 1970)
Dopo vari rimpalli diplomatici, la Cina ammise che le questioni vietnamite avevano reso impossibile i colloqui di Varsavia, ma che desideravano presto tornare al dialogo con gli Stati Uniti e per la prima volta nella storia i documenti ufficiali americani riferivano alla Repubblica Popolare Cinese con la sua denominazione ufficiale. Fu posto fine alle restrizioni sulla utilizzazione dei passaporti americani per i viaggi nella PRC e ufficialmente si opposero alla politica sovietica dando a Breznev del “rinnegato”, poiché, facevano sapere, la vittoria della rivoluzione esigeva “il potere delle masse rivoluzionarie”. Le maglie si allargarono, la Cina cominciò ad allacciare rapporti anche con altri paesi oltre che con gli Stati Uniti, con i quali non aveva mai intrattenuto alcun rapporto diplomatico, Austria, Libano, Perù, Camerun e l’Unione Sovietica fu messa in posizione di debolezza tentando così di indire un vertice fra le potenze nucleari (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e ovviamente Unione Sovietica e Cina) che però venne rifiutato completamente dalla Cina e il tentativo russo decadde.

Stratagemmi e strategie

La Cina dalle “menti sottili”, come la definiva Kissinger con tono anche autoironico, è sempre stato un paese estremamente orgoglioso di sé stesso e delle sue filosofie. Come fa poi notare il prof. Edward Luttwak nel suo The Rise of China, i cinesi mostrano sempre abili stratagemmi, ma non mostrano mai grande strategia.
Riporto una curiosità secondo cui nella CTM (Chinese Traditional Medicine) e secondo la concezione taoista e olistica dell’universo, il corpo umano viene definito come una complessa società, in cui al cuore sta l’imperatore, insostituibile e vitale,  regolato da un ritmo universale, il granaio e le riserve nello stomaco e nel sistema milza-pancreas, le milizie di difesa nei polmoni, la tesoreria nelle reni e il generale dell’esercito viene identificato nel fegato.
Così come il fegato è filtro biologico sempre in prima linea nel trattare ogni sorta di informazioni del corpo, da quelle alimentari a quelle emozionali, controllando il volume del sangue nei vasi, senza ordini precisi e quindi senza strategia quotidiana, equivalente alla coscienza di far parte di un sistema più grande nella totale funzionalità e funzionamento dell’organismo, è e resta sempre il responsabile di ogni azione che viene espressa all’esterno.
Un generale, o un fegato, autoreferenziale, non può essere un buon generale.
Il generale che non è uno stratega è un fegato che vuole porsi al di sopra del suo sistema-organismo, decidendo senza pensare e dimenticando la natura degli altri organi che lo circondano, siano essi collaboratori o nemici.
Tra le forze che concorrono tra loro, l’obiettivo è sempre lo stesso: potere e sicurezza.
E per ottenere potere e sicurezza è necessaria la forza certamente, ma anche e soprattutto la diplomazia e la conoscenza necessaria a comprendere la natura e la logica dei propri avversari.
Paradossale che queste due culture, quella cinese e quella americana si siano incontrate sul terreno della strategia e che i cinesi non abbiano tenuto in considerazione che il nemico non pensi come loro e che il generale non avanza e non va lontano se non tiene conto degli altri organi del regno, in questo caso il globo intero.
C’è inoltre un dato umano da tenere sempre a mente, ovvero la sete di potere e l’onore che sarà sempre più accentuata di quella per la lotta alla sola ricchezza.
In questo la Cina ha sempre costituito in qualche modo un’assenza nel protagonismo mondiale, convinti del fatto che esistessero soltanto per sé stessi, al sicuro all’interno della loro muraglia, senza considerare dunque né la mentalità dell’avversario, né che ci potessero essere altre potenze come la loro nel contesto universale, vivendo al limite dell’autismo e rifiutando che ci fosse qualcosa anche al loro pari.

La Cina comprende il mondo esterno?

Anche all’epoca di Nixon i cinesi stessi tardarono a comprendere il loro potenziale e gli americani che lo intuirono prima, optarono per rapporti diplomatici chiarificatori, esplorativi, per una gestione politica che traghettasse verso lo sviluppo economico e innanzitutto alla penetrazione.
Ad oggi i cinesi, ancora estremamente autoreferenziali, dovrebbero essere capaci dati i frutti raccolti dal boom economico che li ha coinvolti negli ultimi due decenni, a convertire questa ricchezza in diplomazia per continuare a sostenere la loro influenza nel mondo.
Non servono le armi se non si esercita influenza. Non serve disporre della più grande navalmeccanica del mondo senza potere. Non serve la tecnologia se non la puoi vendere.
Anche gli Stati Uniti non hanno certamente brillato in diplomazia considerando la politica portata avanti nei dieci anni, e non solo, precedenti a Trump.
La continua politica di aggressione, l’ostinazione ad inseguire un programma come quello “dell’esportazione della democrazia” ha fatto degli Stati Uniti un paese con enormi lacerazioni e conflitti interni. Più grande è il potere, più grande è la forza, più vasto è il paese e la sua leadership, più le preoccupazioni interne salgono e più difficile rimediare ai conflitti interni e comprenderne le realtà per risolverli.
Una lezione che vale sia per gli Stati Uniti d’America, sia per la Cina.
Nel caso della Cina sicuramente la sua espansione economica non è stata accompagnata da una consapevolezza del mondo esterno. Faticosamente si è affacciata al suo diverso contesto, basti pensare le limitazioni alla libertà di espressione, e faticosamente ha approcciato un mondo che cambia rapidamente e dai tratti culturali comuni però da lei profondamente diversi.
Non si sono mai evoluti lungo il XX secolo come ha fatto l’Occidente, penetrando economicamente verso l’esterno ed eventualmente cercando sempre di mantenere buoni rapporti con i paesi confinanti (gli Stati Uniti non hanno mai mosso guerra al Canada o al Messico, l’Europa dopo la seconda guerra mondiale ha subito compreso il suo punto debole), ma continuando a ricacciarsi dentro i propri confini eventualmente allontanando soltanto il nemico.
La loro diplomazia è debole, se si pensa che nessuno al mondo ha problemi con il Dalai Lama, fatta eccezione proprio della Repubblica Popolare Cinese.
Inoltre questo strano elemento di tolleranza di cui si ritengono fautori, in realtà cela una insostenibile difficoltà di relazioni interne, una debolezza, dove la burocrazia del paese risulta essere un pesante fardello che esercita forti pressioni che nuocciono in definitiva a qualsiasi buon proposito e alla snellezza dell’azione in tutte le direzioni sul pianeta, azioni interne ed esterne, generando così una società altamente corrotta dedita al contrabbando, alla creazione della dipendenza, alla cooptazione continua, tutti pericoli che nelle nostre realtà occidentali sono state in larga parte ridimensionati grazie al sistema democratico e al libero mercato e alle libertà di espressione e azione e alla conoscenza e la cultura funzionale.
In Cina l’economia vuole essere controllata dallo stato in ogni suo passaggio, l’industria ha un suo ministero, ma alla luce dei recenti avvenimenti, come gli scontri di Hong Kong che hanno rimarcato le debolezze di quello che viene definito “un paese due sistemi”, possiamo dire che la teoria secondo la quale la Cina non fa i conti con la realtà in cui è dentro, viene ampiamente confermata e che Xi Jinping non aveva fatto i conti con la finanza, sottostimando clamorosamente il potere di questa.

Stay behind to look forward

Ancora una volta però le due potenze così come nei lontani anni ’70 di Nixon devono entrambe fare i conti con debolezze interne. Dove la burocrazia e il sistema giurassico cinese porta la Cina a fatica a tener testa ad un contesto globale, così il Dipartimento di Stato americano dovrebbe intendere la Cina (e ancora fa fatica), come un alleato, una potenza amica.
La politica di Obama e il suo “pivot to Asia” era volto a contenere la Cina, non a dialogare.  Era una sorta di guerra fredda che non avrebbe portato lontano, senza alcun buon senso, come quello di abbandonare il Medio Oriente e il Nord Africa. Ancora una volta la Cina con il suo autismo si è chiusa in sé stessa insistendo sui dossier indiani, filippini, coreani, indonesiani, invece di trovare una strategia di penetrazione economica utile per mantenere la sua influenza. I prodotti cinesi sono di più scarsa qualità rispetto agli altri di media e possono essere facilmente sostituiti, come dimostrano alcuni paesi vicini che li rifiutano e come dimostrerà l’ingresso di merce americana all’interno dei loro confini ben presto.
Ad oggi la Russia di Putin aiuta un certo contenimento, non ha ancora oggi come ieri una economia o un’industria per competere con i due giganti su piazza, si dimostra goffa nelle sue azioni e si limita così ad essere il braccio di nuovo come ai tempi della fine della guerra del Vietnam, la leva per così dire, sulla quale fare forza nelle questioni collaterali a quelle economiche per gli Stati Uniti, come Medio Oriente e Europa-Mediterraneo.
Tra le più recenti notizie ne spiccano due: la prima è del governo Medvedev dimissionario, che preannuncia il tempo che si avvicina per una nuova strategia di politica interna russa in cui Putin vorrebbe affidare più poteri alla Duma. Vladimir Putin potrebbe ritagliarsi così un altro mandato di controllo (con un’altra carica ad esempio, o a capo di un riformato Consiglio di Stato o di nuovo da premier come già successo nel 2008, ma con più ampi poteri) in vista di nuove elezioni, poiché impossibilitato al momento dalla legge a ricandidarsi nel 2024.
La seconda notizia pervenutaci negli stessi giorni è che è stata varata la riforma delle cosiddette State-Owned Enterprises (SOE) in Cina, cioè le aziende di Stato controllate dall’apparato statale cinese.
Xi Jinping vorrebbe sostituire i dirigenti di azienda con dei funzionari politici che rispondano direttamente al partito.
Gli Stati Uniti, come al tempo di Nixon, cercano un dialogo e degli accordi, proponendosi come “fedeli alleati” di Cina e Russia e ergendosi a “garantita assicurazione di fedeltà” per tutto il mondo.
La Cina e la Russia, comprenderanno che per sopravvivere dovranno mutare il loro interno all’interno di un contesto mutato?
O perseguiranno le loro politiche di chiusura?
Lo stay behind americano aiuterà to look forward?

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