La Turchia finanzia una guerra invisibile contro i suoi dissidenti

giu 4, 2013 0 comments
Polizia greca in tenuta antisommossa schierata. (Foto di Henry Langston)
 Di Yiannis Baboulias
Durante il corso della settimana passata, abbiamo assistito a scene di caos per le strade di Istanbul, Ankara e nelle altre maggiori città turche. Quella che è cominciata come un’iniziativa per fermare la distruzione di un parco cittadino di Istanbul per fare spazio a un centro commerciale è diventata una lotta senza quartiere contro l’autoritarismo del primo ministro turco Tayyip Erdoğan.
Come se i manifestanti non fossero infuriati abbastanza all’idea di vedersi cementificare un’area verde, Erdoğan ha ordinato alla polizia, quasi letteralmente, di spaccare crani e attaccare la folla con lacrimogeni e spray al peperoncino. Ma al fianco della violenza pura ed evidente, una guerra invisibile è cominciata contro i turchi che osano sollevarsi e sfidare il governo.

Bulut Yayla
Questa storia comincia non in Turchia, ma nel centro di Atene, dove Bulut Yayla, un richiedente asilo poltico, è scomparso giovedì. Stando ai testimoni, attorno alle 9.30 di sera, Yayla è stato immobilizzato, picchiato e gettato dentro a una macchina su Solomou, strada del distretto di Exarcheia. Quando gruppi di sostegno e avvocati hanno cercato di rintracciare la targa della macchina, il proprietario del mezzo si è rivelato essere, udite udite, un membro della polizia greca. 
La polizia greca nega di avere a che fare con l’accaduto. Yayla, un attivista politico precedentemente arrestato e torturato in Turchia, tentava di ottenere lo status di rifugiato politico in Grecia. Ma grazie alla nota efficienza della burocrazia greca, probabilmente non rimarrete sorpresi nel sapere che Yayla non ha avuto troppa fortuna.
Quando è ricomparso dopo il suo rapimento, Yayla non si trovava più ad Atene ma ad Istanbul, trattenuto dalla sezione anti-terrorismo della polizia turca. Da quel momento, ha informato gruppi di attivisti greci di quello che gli era successo dopo il suo rapimento. Incappucciato, era passato nelle mani di tre differenti gruppi di persone. Una volta attraverato il confine con la Turchia (passando attraverso una rete metallica, nel cuore della notte) si è ritrovato a Istanbul.
Ovviamente la polizia greca continua a negare qualsiasi legame coi fatti e ha dichiarato che l'auto utilizzata per il rapimento era stata ritirata dall’impiego ufficiale. In ogni caso, nuove denunce di connivenza tra i governi turco e greco finalizzata alla cattura di dissidenti rende queste dichiarazioni decisamente improbabili. 

Un attentato suicida contro l’ambasciata americana ad Ankara, Turchia.
Nei mesi scorsi, i media turchi hanno accusato i rappresentanti governativi e gli organi di polizia di essersi incontrati per trovare strategie di repressione ai danni di attivisti curdi e radicali. Particolarmente esposti alla repressione sono i membri del DHKP-C o Devrimci Halk Kurtuluş Partisi-Cephesi [Partito-Fronte Rivoluzionario di Liberazione del Popolo], che Erdoğan ha additato come responsabili per l’attentato all’ambasciata americana di Ankara, a febbraio. Yayla, curdo, era un membro del DHKP-C, il che potrebbe spiegare le violente misure impiegate per il suo rapimento e per la successiva riconsegna alle autorità turche. 
A causa della sua militanza nel DHKP-C, Yayla era già stato imprigionato e torturato dalla polizia turca, ancor prima di cercare rifugio per sfuggire le celebri “celle bianche”—i carceri di massima sicurezza in cui isolamento e privazione sensoriale sono usati per torturare i detenuti. Stando all’agenzia di stampa IPS, il capo della polizia greca Nikos Papagiannopulos e il suo corrispettivo turco si sono incontrati il 4 febbraio e hanno concordato che la Grecia avrebbe aiutato il governo di Erdoğan a dare la caccia ad attivisti come Yayla. 
L’accordo è stato finalizzato un mese dopo, grazie ad accordi tra i primi ministri greco e turco, Antoni Samaras e Tayyip Erdoğan, con sostanziali ritorni economici per entrambe le parti e promesse di cooperazione e investimenti in vari ambiti—sanità, turismo e immigrazione sono solo alcuni punti.
Come IPS ha fatto notare, “Lo stesso giorno, l’Istituto Strategico di Ankara ha sottolineato come investimenti privati turchi in Grecia siano stati usati come strumento di pressione per agevolare l’accordo sull’estradizione. Sono seguiti ulteriori report sulle espulsioni, ma il governo greco non ha voluto replicare a nessuno di essi.”
Ioanna Kourtovik, avvocato che si è interessato al caso di Yayla dall’inizio, mi ha detto, “Non c’è nulla che possiamo fare tramite vie legali, dalla Grecia. Si è trattato di un arresto illegale e il lato turco sta cercando di spacciarlo come se fosse un arresto avvenuto in Turchia, mentre la polizia greca dichiara di non essere a conoscenza di alcunché. Ma, come il Council for Refugees [Consiglio per i Rifugiati] ha sottolineato, Yayla ha contattato le autorità per richiedere lo status di rifugiato politico, così è certo che loro sapessero chi era e dove si trovava. I suoi avvocati hanno sporto una denuncia che potrebbe coinvolgere la polizia ellenica, se si scoprisse che hanno avuto qualcosa a che fare con l’accaduto.”
A parte l’essere una sostanziale violazione dei diritti umani, l’espulsione di Yayla potrebbe essere una violazione della Convenzione di Ginevra. Ma non si tratterebbe di qualcosa di nuovo—sia la Grecia sia la Turchia stanno cominciando a manifestare una tendenza all’imprigionamento e alla tortura di attivisti, associata all’estrema violenza contro i manifestanti. Si tratta di tendenze preoccupanti che abbiamo visto all’opera negli ultimi due anni in Grecia e che stanno cominciando a manifestarsi anche in Turchia, soprattutto durante le recenti proteste.

Una retata in una casa sicura del DHKP-C, a Istanbul, a gennaio.
Un regime di “tolleranza zero” è stato adottato in entrambi i Paesi, il che si traduce, più o meno, in “Per noi è completamente legittimo rapire persone che ci infastidiscono”—senza dubbio una prospettiva terrificante per gli attivisti che esprimono il loro basilare diritto a protestare. In entrambi i Paesi, le leggi anti-terrorismo sono già molto severe. E se quelle leggi sono state utilizzate in Grecia per perseguire gli adolescenti armati di bastone durante le proteste, quello che attende la Turchia è decisamente peggio. Si sa di sospettati incarcerati per due anni senza alcun tipo di accusa, e le confessioni estorte con la tortura possono essere utilizzate in tribunale. 
Ora, entrambi i governi si affidano allo stesso tipo di ordinamento che ha permesso alle forze di polizia greche di trasformarsi in un esercito privato, a partire dai fatti della miniera d’oro di Skouries e dagli agenti di polizia ultra-violenti turchi impegnati nella repressione delle proteste contro la costruzione di un centro commerciale a Istanbul. Apparentemente la tutela dei diritti umani importa poco a Samaras e Erdoğan, a patto che ci siano da concludere accordi in grado di portare introiti a entrambi. Questi due leader stanno svendendo i rispettivi Paesi pezzo per pezzo, approfittando della scarsa trasparenza e della corruzione che attanaglia i due governi.  
Mentre il sangue viene lavato via dal marmo di Piazza Taksim, mentre gli attivisti vengono illegalmente rapiti da un Paese per essere processati in un altro e mentre il far sentire la propria voce diventa sinonimo di “terrorismo”, i media di stato continuano a ignorare i veri problemi, condannando, invece, i manifestanti o, se farlo viene a noia, attaccando gli immigrati. Sembra che Grecia e Turchia, segnate da una passata instabilità sociale, abbiano trovato un terreno di intesa per muoversi e uscire dalle rispettive situazioni di difficoltà: l’indifferenza verso le opinioni e il benessere dei loro cittadini.

Fonte:http://www.vice.com/it/read/turchia-guerra-contro-i-dissidenti

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