La piccola azienda di donne che batte le lobby tedesche

lug 22, 2012 0 comments
Di Dario Di Vico
Nei panni del leggendario Davide stavolta c'è una caparbia imprenditrice padana, Manuela Bonetti. In quelli di Golia il potente ente tedesco di certificazione industriale, la Dvgw. Per sette lunghissimi anni Golia è riuscito a impedire che un'innovazione di prodotto messa a punto dall'azienda italiana potesse entrare sul mercato germanico e mettere in difficoltà i concorrenti locali, che pure partono da una dimensione di business almeno dieci volte quella della Frabo, l'azienda dei Bonetti. Manuela però non è tipo da mollare le battaglie, non ha dato retta a chi le consigliava di allentare la presa perché non avrebbe mai vinto e in questi anni ha fatto ricorso legale ovunque fosse possibile. Fino ad arrivare a interpellare l'Alta Corte di Giustizia del Lussemburgo. L'happy end è datato 12 luglio e con una sentenza lunga 7 pagine, 31 punti e svariati comma l'alto magistrato comunitario Jean Claude Benichot ha dato ragione agli italiani informandone la Dvgw e il governo di Angela Merkel, la Commissione europea e i governi di Praga e Amsterdam (che si erano uniformati al diktat tedesco).
La Frabo è nata nel 1969 a Quinzano d'Oglio, al confine tra le province di Brescia e Cremona. All'inizio i cinque fratelli Bonetti avevano messo su una fonderia ma via via hanno preferito spostarsi verso un business considerato più remunerativo, quello dei componenti e sistemi per l'industria termo-idraulica. Stiamo parlando comunque di una piccola azienda che fattura 22,5 milioni e metà del giro d'affari lo fa grazie all'export perché i prodotti Frabo nel mondo sono conosciuti e ricercati. Oggi in azienda comandano le donne della seconda generazione Bonetti e grazie a Manuela - subentrata agli zii come amministratore delegato -, l'azienda cremonese ha investito nell'innovazione. Ed è arrivata a mettere a punto nei suoi laboratori una guarnizione-super, tecnicamente un «raccordo a pressare», che serve a mettere in sicurezza le grandi reti che portano il gas e l'acqua.
Ai concorrenti tedeschi, dopo un iniziale sconcerto, la cosa non è piaciuta tanto e, raccontano a Quinzano, da lì è partita nel 2005 l'azione ostruzionistica della Dgbw, l'ente pubblico-privato (non estraneo a conflitti di interesse) che dovrebbe sovraintendere con giudizio indipendente all'omogeneità degli standard industriali. L'accusa di Bonetti è chiara: i tedeschi hanno attuato una manovra di sbarramento contraria alla filosofia e alla prassi del mercato unico europeo e l'hanno tirata in lungo per mettere in mora gli sforzi commerciali dei piccoli italiani. «Non solo sul mercato tedesco ma anche su quelli dei paesi che orbitano attorno alla loro economia», sottolinea Bonetti.
La lunga rincorsa per avere ragione è costata alla piccola Frabo 1,2 milioni di euro in spese legali ma anche stavolta Manuela (55 anni, sposata, attiva nella Confindustria di Cremona) è decisa ad andare fino in fondo e ha già intentato nuove cause per danni presso i tribunali tedeschi. «Il loro sistema appare blindato non solo in patria, la pressione lobbistica che esercitano sugli organismi comunitari è impressionante e noi italiani ovviamente siamo quasi sempre il vaso di coccio». Nei tanti comitati e associazioni che decidono gli standard industriali i tedeschi sono presentissimi e anche questo alla fine giova a rafforzare il mito della loro invincibile industria. «Quando sento - dice Bonetti - che il futuro delle nostre imprese è in Cina mi viene da obiettare che prima di tutto dobbiamo presidiare l'Europa. Non tralasciare niente per far valere le nostre ragioni e quelle del mercato unico. Non è stata forse una battaglia di Mario Monti?».
Prima di vincere con l'Alta Corte la Frabo si era presa un'altra bella soddisfazione: un invito a Copenaghen per esporre il loro caso alla conferenza «One Europe, one market», davanti a una platea di commissari europei, ministri, parlamentari e imprenditori. Per una Pmi italiana si è trattato di un riconoscimento clamoroso che evidentemente ha preparato il terreno al successivo intervento della magistratura comunitaria. «Per una piccola azienda ovviamente non è facile partecipare a questi incontri. Noi stessi li vediamo come perdite di tempo perché siamo abituati a lavorare pancia a terra 24 ore su 24, ma è un errore».

Fonte:Corriere della Sera

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