Un accordo che per Starmer potrebbe passare solo se rispondesse alle “sei condizioni” fissate a suo tempo per una Brexit “ragionevole”, incluso il rispetto delle tutele dei lavoratori britannici ai livelli attuali e un irrealistico mantenimento del “pieno accesso” ai mercati europei. Qualcosa di “sempre più improbabile”, nelle parole del ministro ombra, che martella sull’imperativo di “salvare il Paese dalla catastrofe” di un ‘no deal’ o di “un accordo vago” di divorzio dall’Europa.

“La nostra preferenza – concede Starmer a Corbyn – resta per le elezioni anticipate”, precondizione per “liberarci del governo Tory”. Ma la seconda scelta, insiste, non può che essere un referendum, e un referendum aperto a ogni esito. Sbocco su cui peraltro a dare le carte spetterà con ogni probabilità di nuovo alla zoppicante leadership di Theresa May, la cui compagine prova a tenere duro sbandierando la promessa di riportare “sotto controllo l’immigrazione” e di equiparare – a transizione post Brexit conclusa – i cittadini europei agli extracomunitari eccezion fatta per i lavoratori “qualificati“.
Una leadership ancora in grado, in fin dei conti, di sventare qualunque ricorso alle urne se la precaria maggioranza che la sostiene riuscisse in extremis a ricompattarsi miracolosamente sull’orlo del pericolo dell’implosione. E comunque di decidere, anche in caso di crisi, se piegarsi o meno all’incognita di un secondo referendum fino a oggi categoricamente rifiutata.