Gli artigli dell’alta finanza sul cambiamento climatico

gen 7, 2022 0 comments


A differenza di alcuni anni fa, alcune delle più blasonate istituzioni di potere sembrano essersi convertite all’ambientalismo. Per capire il perché ed evitare le spiegazioni più irragionevoli e superficiali occorre affondare la lama nello strato sottostante: quello degli interessi dominanti.

Prima di tutto va osservato che da svariati anni il cambiamento climatico è stato indicato da rapporti, documentati, gruppi ecologisti e le maggiori istituzioni hanno fatto orecchio da mercante, accontentandosi di qualche piccolo tocco cosmetico completamente irrilevante. Negli ultimi anni si sono accumulate avvisaglie temibili sulle relative ricadute, e dalle fonti più impensate.

L’amministrazione Trump a novembre 2018 pubblicò il gigantesco Fourth National Climate Assessment, un rapporto di 1500 pagine che prefigura delle ricadute importanti per gli USA. Si tratta di una pubblicazione che riassume un programma di ricerca direttamente condotto dal governo federale, il quale prevede che il paese stia già subendo le conseguenze del cambiamento climatico in termini di maggiori disastri naturali, e tutto ciò avrebbe un peggioramento significativo e crescente.

Solo pochi mesi fa il Direttore dell’Intelligence Nazionale (ODNI; un organo di coordinamento delle svariate agenzie nel perimetro della comunità dell’intelligence USA creato da Bush nel 2008) ha pubblicato uno scarno rapporto che qualifica il cambiamento climatico come una minaccia alla sicurezza nazionale per via di crescenti conflitti, migrazioni climatiche, competizione per le risorse.

Anche il mondo della finanza mostra di occuparsi della questione. È passato quasi completamente sotto silenzio una interessante iniziativa promossa dalla Banca di Francia, o meglio dalla ACPR (Autorité de contrôle prudentiel et de résolution), un organismo ad essa associato.

Gli stress test sono analisi delle attività bancarie introdotte dopo la crisi del 2007-08, volte a verificarne la solidità rispetto ad eventuali shock esterni, per minimizzare il famoso rischio sistemico. Rischio di far detonare da un qualche genere di crisi una reazione a catena che possa mettere a terra l’economia generale – e incidentalmente, spennare gli azionisti.

In generale tali tipi di analisi si sono dimostrate eccessivamente blande e non costituiscono assolutamente una garanzia che il rischio indotto dalla curvatura finanziaria dell’economia attuale sia stato portato sotto una soglia ragionevole. Ma mostra che una preoccupazione per i rischi c’è, e quanto meno intende rassicurare gli investitori.

Gli stress test della Banca di Francia hanno operato delle modalità di analisi direttamente volte ai rischi determinati dal cambiamento climatico. Essi hanno coinvolto 9 gruppi bancari e 22 organismi assicurativi (tutti solo francesi), includendo quindi circa il 75% dei portafogli assicurativi e l’85% di quelli bancari.

Purtroppo anziché un esame severo gravido di conseguenze incisive (come in effetti sono gli stress test normalmente, al di là dei conflitti di interesse e dei parametri completamente inadeguati che per esempio in Ue hanno guidato il processo), si tratta di un esame molto più morbido ed amichevole; l’adesione era volontaria. Forse per questo i risultati alla fine sembrano abbastanza rassicuranti. In ogni caso è un tipo di valutazione assai complessa, che ha preso in considerazione diversi scenari di evoluzione delle condizioni climatiche e le varie possibilità che esse possano influire negativamente. La metodologia si concentra sui settori specifici: in caso di scenario A o B cosa accadrà all’industria chimica, alla metallurgia, e come la implicazione di banche e assicurazioni in esse può rappresentare un rischio. Appaiono assai più a rischio le assicurazioni, vista la prevedibile moltiplicazione di eventi calamitosi che farebbero lievitare il costo delle polizze, tagliando fuori di fatto alcuni settori, per tariffe troppo onerose.

Il punto debole non è solo quello; in effetti i regolatori francesi hanno parlato di un esperimento pilota,e niente impedirebbe di replicarlo con maggiore incisività e minor indulgenza. La pecca è che si tratta di approcci di mercato che difficilmente arriveranno a molto, trattandosi di forme di regolazione tutte interne al sistema.

E comunque si può considerarlo un indizio importante della paura e incertezza che cova sotto la cenere; già il fatto che alcuni problemi degli istituti francesi siano emersi può considerarsi un mezzo miracolo, visto che nessuno di essi ha alcun interesse a mostrare in pubblico le criticità che possono gettare un velo di dubbio sulla loro affidabilità.

Se sotto sotto fa capolino la coscienza presso l’oligarchia mondiale che le dinamiche dominanti accrescono i rischi per le società e le economie (e, conseguentemente, per i suoi profitti) il risultato sarà forse di mettere in discussione l’orientamento privatistico-mercatista?

Ovviamente no.

Nel corso della  conferenza COP 26 a Glasgow sul clima Mario Draghi ha affermato:

Non è un problema di soldi. Oggi abbiamo capito una cosa: a prescindere dal fatto che si tratti di nuove tecnologie o programmi infrastrutturali per l’adattamento ai cambiamenti climatici, il denaro può non essere più un vincolo se portiamo dalla nostra parte il settore privato. Parliamo di decine di trilioni di dollari.

Facendo eco ad un altro ex banchiere, Mark Carney, governatore della Bank of England fino a marzo 2020, secondo cui:

“Se guardiamo alla situazione oggi, vediamo che ci sono 130mila miliardi di dollari [sic!] nel core della finanza globale che in modo crescente cercano progetti ad emissione zero, e sarebbero lieti di andare presso una grande impresa […] per prestarle i soldi o investirci se hanno dei piani per abbattere le emissioni”.

Si comincia a capire dove si vuole andare a parare. L’ex governatore non parla a titolo personale, ma a nome di un gruppo chiamato Glasgow Financial Alleance for Net Zero (GFANZ) che comprende 450 soggetti appartenenti ad ogni segmento del settore finanziario: assicurazioni, banche, agenzie di rating, consulenza finanziaria, un po’ tutti insomma: da McKinsey a Deutsche Bank, da Morgan Stanley ai Lloyd. Tutti appassionatamente dediti al fine di decarbonizzare l’economia, con altisonanti dichiarazioni e patinate brochure con illustrazioni di pale eoliche nel verde.

Negli anni scorsi aggressive lobby legate a pensatoi liberisti e a gruppi evangelici (che negano che gli esseri umani possano modificare l’assetto naturale; solo Dio può farlo, naturalmente) hanno cercato di minimizzare l’impatto del cambiamento climatico screditando coloro che lo sostenevano. Adesso pare che la strategia sia cambiata...

FONTE E ARTICOLO COMPLETO: https://www.lafionda.org/2022/01/07/gli-artigli-dellalta-finanza-sul-cambiamento-climatico/

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