Secondo il giornale newyorchese, questi agenti sotto copertura prendono in consegna in territorio messicano due o tre carichi di denaro a settimana. A volte, sono gli agenti messicani infiltrati a ricevere il denaro dai narcos. Quelli americani, poi, lo trasportano negli Stati Uniti su velivoli governativi, per poi depositarlo su conti corrente aperti dai cartelli o dagli stessi agenti. Da qui, i proventi del narcotraffico vengono successivamente trasferiti a società che forniscono beni e servizi ai cartelli. In altre occasioni, invece, gli agenti della DEA si fingono riciclatori ed entrano in contatto diretto con i rappresentanti dei cartelli, dai quali ricevono il denaro che viene allo stesso modo depositato nelle banche americane e in seguito trasferito nuovamente in Messico.
Alla domanda di quanto denaro sia stato finora trasportato in questo modo dal Messico agli Stati Uniti, un agente intervistato dal Times ha risposto soltanto “parecchio”. Solitamente, continua la fonte anonima, la DEA cerca di sequestrare gli stessi importi riciclati, in parte facendo pagare commissioni ai cartelli per i servizi forniti dai finti riciclatori e in parte arrestando i narcotrafficanti al momento degli scambi di denaro. In teoria, la DEA dovrebbe richiedere una speciale autorizzazione al Dipartimento di Giustizia, da cui dipende, prima di organizzare singole operazioni che prevedano importi da riciclare superiori ai dieci milioni di dollari, ma in pratica ciò avviene molto raramente.
Secondo la versione ufficiale, le operazioni di riciclaggio della DEA sarebbero indispensabili per comprendere le modalità con cui i cartelli trasferiscono negli USA i proventi del narcotraffico per essere riciclati, ma anche per individuare dove essi collocano il loro denaro e per risalire ai vertici dei cartelli stessi. Senza queste rischiose operazioni, inoltre, sarebbe molto difficile trovare le prove che collegano il denaro riciclato ai cartelli, i quali hanno da tempo creato reti finanziarie complesse che sarebbe impensabile poter penetrate con i tradizionali strumenti di indagine.
Queste operazioni, tuttavia, sollevano quanto meno molte perplessità, dal momento che, oltre a compromettere la sovranità messicana, di fatto facilitano i traffici illegali delle già potenti organizzazioni criminali. Oltretutto, i risultati ottenuti dai governi di Washington e di Città del Messico appaiono trascurabili e sembrano non incidere minimamente sulla situazione generale.
Come ha commentato un altro ex agente DEA al Times, se si contribuisce “a riciclare denaro, è opportuno mostrare dei risultati. Altrimenti, la DEA finisce per diventare il maggiore riciclatore nel business della droga e il denaro va a finanziare violenze e assassini”. I risultati, al contrario, sono tutt’altro che convincenti. Nel 2010 la DEA ha confiscato circa un miliardo di dollari - 26 milioni il governo messicano - vale a dire una frazione minima del flusso di denaro che si muove tra Stati Uniti e Messico, stimato annualmente tra i 18 e i 39 miliardi di dollari. Questi stessi dubbi cominciano ad averli ora anche i parlamentari americani, tanto che già lunedì alcuni membri repubblicani del Congresso hanno manifestato l’intenzione di aprire un’indagine su queste operazioni sotto copertura.
Rivelazioni come quella di domenica scorsa del New York Times, assieme all’esplosione dello scandalo “Fast and Furious”, ripropongono in maniera inquietante la questione dell’ambiguità del governo americano nella lotta al narcotraffico.
Non solo l’attività dei cartelli della droga contribuisce a far lievitare i profitti dei fabbricanti di armi in America - la cui profonda influenza sulla politica di Washington è inutile ricordare - e delle grandi istituzioni finanziarie, che notoriamente riciclano il denaro dei narcos, anche al di fuori delle operazioni sotto copertura delle agenzie federali. La minaccia perenne dei narcotrafficanti serve anche e soprattutto a giustificare la militarizzazione di molti paesi latinoamericani, così da garantire la continua presenza degli Stati Uniti sull’intero continente. Una necessità, quest’ultima, diventata ancora più pressante negli ultimi anni, alla luce delle minacce all’egemonia americana provenienti da governi come quelli di Hugo Chavez in Venezuela o di Evo Morales in Bolivia.
Una politica quella degli Stati Uniti che continua ad imporre un prezzo carissimo alle popolazioni locali, come dimostrano gli effetti di cinque anni di guerra al narcotraffico in Messico. L’impiego dei militari deciso da Calderón per combattere lo strapotere dei cartelli ha infatti portato ben pochi benefici ad un paese che dal 2006 ad oggi conta qualcosa come 50 mila morti ed una serie infinita di abusi commessi dalle proprie forze di sicurezza.
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