“Foxcatcher”: al cinema l'altra faccia del sogno americano

mar 20, 2015 0 comments
Di Davide Trovato
È nelle sale italiane dallo scorso weekend Foxcatcher – Una storia americana, ultima fatica cinematografica del regista statunitense Bennett Miller. Noto per il film candidato all’Oscar nel 2006,Truman Capote: a sangue freddo, il filmaker ha bissato la nomination proprio con quest’ultima pellicola. E più che di una generica storia americana si potrebbe tranquillamente parlare della storia americana per eccellenza, considerando peraltro che si tratta di fatti realmente accaduti.
La trama racconta le vicissitudini dei fratelli Schultz, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 nella lotta greco-romana. I due, accomunati dalla stessa passione sportiva, conducono una vita tra lotta e famiglia, risultando fin dall’inizio caratterialmente complementari: il primo, interpretato magistralmente da Mark Ruffalo, è un padre di famiglia saggio ed equilibrato, mentre il secondo Mark (Channing Tatum) appare solitario ed asociale. La routine e gli allenamenti vengono tuttavia presto interrotti da John DuPont, erede della famiglia DuPont, personificazione del “sogno americano”: la dinastia è infatti una di quelle più ricche al mondo, padrona delle omonime industrie che hanno disegnato la storia degli Stati Uniti con armi ed invenzioni varie.
John (un’irriconoscibile Steve Carrell) rappresenta tuttavia l’altra faccia di quella stessa medaglia a stelle e strisce: solo, represso, omosessuale latente e bipolare, sogna di portare nell’immensa tenuta di famiglia i migliori lottatori del Paese, in vista delle Olimpiadi di Seul del 1988. L’intento è chiaro, continuare a spingere oltre il binomio Stati Uniti uguale successo, e quindi successo uguale DuPont.
In poco tempo però il sogno si trasforma in elogio della decadenza: la rozza purezza di Mark viene intaccata insorabilmente dai vizi del pusillanime John, tutto cocaina e denaro, facendone un servo prono e senz’anima. Non basterà l’arrivo del fratello David a ristabilire l’ordine. Troppe cose sono successe nella tenuta, ed il sangue scorrerà sulla pelle di un paese corrotto come i suoi stessi miti.
Quello che ne emerge è un ritratto politico cinico ma reale dell’America. Un’istantanea che ben rende lo scintillare di coppe presto destinate alla polvere. E non stupisce che nonostante le cinque candidature, la pellicola non abbia visto l’ombra di un Oscar. Troppo forte e cruda è l’immagine che se ne deriva per un pubblico abituato solamente a celebrazioni e paillettes.
E alla fine dello spettacolo, in effetti, non possono non tornare alla mente le parole che il re del noir, James Ellroy, dedica proprio agli Stati Uniti, nell’introduzione di una delle sue più grandi opere: “L’America non è mai stata innocente. Abbiamo perso la verginità sulla nave durante il viaggio di andata e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto. Non si può ascrivere la nostra caduta dalla grazia ad alcun singolo evento o insieme di circostanze. Non è possibile perdere ciò che non si ha fin dall’inizio. La mercificazione della nostalgia ci propina un passato che non è mai esistito. L’ agiografia santifica politici contaballe e reinventa le loro gesta opportunistiche come momenti di grande spessore morale. […] E’ tempo di demitizzare un’era e costruire un nuovo mito, dalle stalle alle stelle. E’ tempo di abbracciare la storia di alcuni uomini malvagi e del prezzo da loro pagato per definire in segreto il loro tempo. Dedicato a loro”. Un “omaggio” che a Foxcatcher calza a pennello.

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