La dottrina delle quattro età

giu 5, 2015 0 comments


Di Julius Evola

Se l'uomo moderno fino a ieri aveva concepito e esaltato come una evoluzione il senso della storia a lui nota, la verità conosciuta dall'uomo tradizionale è stata l'opposta. In tutte le antiche testimonianze dell'umanità tradizionale si può sempre ritrovare, nell'una o nell'altra forma, l'idea di un regresso, di una caduta: da stati superiori originari gli esseri sarebbero scesi in stati sempre più condizionati dall'elemento umano, mortale e contingente. Un tale processo involutivo avrebbe preso inizio in tempi lontanissimi e il termine eddico ragna-ròkkr, "oscuramento degli dèi", è quello che meglio lo caratterizza. Né si tratta di un insegnamento che nel mondo tradizionale sia restato in una forma vaga e generica: esso si definì invece in una dottrina organica, ritrovabile essa stessa con un largo margine di uniformità, nella dottrina delle quattro età. Un processo di decadenza graduale lungo quattro cicli o "generazioni" - tale è, tradizionalmente, il senso effettivo della storia, epperò anche quello della genesi di ciò che, in universale, abbiamo chiamato "mondo moderno". Questa dottrina potrà dunque servire da base a quel che segue.

La forma più nota nella dottrina delle quattro età è quella propria alla tradizione greco-romana. Esiodo parla appunto di quattro ere, controsegnate dai metalli oro, argento, bronzo e ferro, inserendo poi fra le due ultime una quinta èra, l'èra degli "eroi", che però si vedrà aver solo il significato di una parziale e speciale restaurazione dello stato primordiale (1). La tradizione indù ha la stessa dottrina nella forma di quattro cicli chiamati rispettivamente satyà-yuga (o krtà-yuga), tretà-yuga, dvdpara-yuga e kali-yuga (cioè "età oscura") (2), insieme all'immagine del venir meno, in ciascuna di esse, di ciascuno dei quattro piedi o sostegni del toro simboleggiante il dharma, la legge tradizionale. La redazione irànica è affine a quella ellenica: le quattro età sono conosciute e controsegnate da oro, argento, acciaio e "mescolanza di ferro" (3). L'insegnamento caldaico riprende tale veduta quasi negli stessi termini.

In particolare, più recentemente s'incontra l'immagine del carro dell'universo come una quadriga che. condotta dal dio supremo, è trasportata in una corsa circolare da quattro cavalli raffiguranti gli elementi: le quattro età corrispondono al successivo prevalere di ciascuno di tali cavalli, che allora trascina con sé gli altri, secondo la natura simbolica, più o meno luminosa e rapida, dell'elemento di cui esso è la figurazione (4). Per quanto in una trasposizione speciale, la stessa concezione riappare nella tradizione ebraica, nel profetismo parlandosi di una statua splendente, la cui testa è d'oro, il cui petto e le cui braccia sono d'argento, il ventre e le cosce di rame, e le gambe e i piedi di ferro e argilla: statua, che rappresenta, nelle varie parti così divise, quattro "regni" che si succedono a partir da quello aureo del "re dei re" che ha ricevuto "dal dio del cielo potenza, forza e gloria" (5). Se per l'Egitto si sa già della tradizione riferita da Eusebio circa tre distinte dinastie, formate rispettivamente da dèi, semidei e mani (6), in ciò può aversi l'equivalente delle tre prime età - da quella dell'oro a quella del bronzo - di cui sopra. Così pure, se le antiche tradizioni azteche parlano di cinque soli o cicli solari, di cui i primi quattro corrispondono agli elementi e nei quali, come nelle tradizioni euroasiatiche, figurano le catastrofi del fuoco e dell'acqua (diluvio) e quelle lotte contro i giganti, che vedremo caratterizzare il ciclo degli "eroi" aggiunto da Esiodo agli altri quattro (7), in ciò si può egualmente riconoscere una variante dello stesso insegnamento di cui, peraltro, in altre forme, più o meno frammentariamente, si può ritrovare anche fra altri popoli il ricordo.

All'esame del senso dei singoli periodi è opportuno premettere qualche considerazione generale, in quanto la concezione in quistione sta in aperto contrasto con le vedute moderne circa la preistoria e il mondo delle origini. Sostenere, come tradizionalmente si deve sostenere, che alle origini sia esistito non l'uomo animalesco delle caverne, ma un "più-che-uomo", e che già la più alta preistoria abbia veduto non pure una "civiltà", ma anzi un'"èra degli dèi" (8) - per molti, che in un modo o nell'altro credono alla buona novella del darwinismo, significa fare pura "mitologia". Tuttavia, siccome questa mitologia non siamo noi ad inventarla ora, così resterebbe da spiegare il fatto della sua esistenza, il fatto cioè che nelle testimonianze più remote dei miti e degli scritti dell'antichità non si trovi nessun ricordo che conforti l'"evoluzionismo" e si trovi - invece ed appunto - l'opposto, la costante idea di un passato migliore, più luminoso, super-umano ("divino"); che si sappia dunque così poco di "origini animali", che anzi si parli uniformemente di una originaria parentela fra uomini e numi e che permanga il ricordo di uno stadio primordiale di immortalità, unitamente all'idea, che la legge della morte è intervenuta in un momento determinato e, a dir vero, quasi al titolo di un fatto contro-natura o di un anatema. In due testimonianze caratteristiche, come causa della "caduta" è indicato il mescolarsi della razza "divina" con la razza umana in senso stretto, concepita come razza inferiore, tanto che in certi testi la "colpa" è paragonata alla sodomia, al congiungimento carnale con le bestie. Da una parte, vi è il mito dei Ben-Elohim, o "figli degli dèi", che si unirono alle "figlie degli uomini" facendo sì che alla fine "ogni carne abbia corrotta la sua via sulla terra" (9); dall'altra, vi è il mito platonico degli Atlantidi, concepiti parimenti come discendenti e discepoli degli dèi, che per il loro ripetuto unirsi agli umani perdono l'elemento divino e finiscono col lasciar predominare in loro la natura umana (10). Per epoche relativamente più recenti la tradizione, nei suoi miti, è ricca di riferimenti a razze civilizzatrici e a lotte fra razze divine e razze animalesche, ciclopiche o demoniche. Sono gli Asen in lotta contro gli Elemen-tarwesen; sono gli Olimpici e gli "Eroi" in lotta contro giganti e mostri della notte, della terra o dell'acqua; sono i Deva ari sorti contro gli Asura, "nemici degli eroi divini"; sono gli Inca, i dominatori che impongono la loro legge solare agli aborigeni della "Madre Terra"; sono i Tuatha de Danann che secondo la storia leggendaria dell'Irlanda si affermarono contro le razze mostruose dei Fomori, e così via. Su tale base, si può anche dire che se l'insegnamento tradizionale ricorda - come substrato anteriore alle civiltà create da razze superiori - ceppi, che potrebbero anche corrispondere ai tipi animaleschi e inferiori dell'evoluzionismo, l'evoluzionismo è però caratterizzato dall'errore di considerare tali ceppi animaleschi come originari in assoluto, mentre essi lo sono solo relativamente, e di concepire come forme di "evoluzione" forme di incrocio presupponenti l'apparire di altre razze, superiori biologicamente e come civiltà, venute da sedi loro proprie, razze che sia per la remota antichità (come è il caso per quella "iperborea" o per quella "atlantide"), sia per fattori geofisici, non lasciarono che tracce ardue a ritrovarsi da parte di chi si basi sulle sole testimonianze archeologiche e paleontologiche accessibili alla ricerca profana.

D'altra parte, è molto significativo il fatto che le popolazioni sussistenti ove ancora vigerebbe il presunto stato originario primitivistico e barbaro, poco confortano l'ipotesi evoluzionistica. Sono ceppi che, invece di evolversi, tendono ad estinguersi, col che dimostrano di essere appunto residui degenerescenti di cicli, le cui possibilità vitali erano esaurite, ovvero elementi eterogenei, tronchi lasciati indietro dalla corrente centrale dell'umanità. Ciò vale già per l'uomo di Neanderthal, che nella sua estrema brutalità morfologica sembra avvicinarsi all'"uomo-scimmia". L'uomo di Neanderthal è scomparso misteriosamente in un dato periodo e le razze che sono apparse dopo di esso - l'uomo Aurignac e soprattutto l'uomo Cro-Magnon - e che presentano un tipo superiore, tanto che vi si può riconoscere già il ceppo di molte delle presenti razze umane, non possono esser considerate come "forme evolutive" dell'uomo di Neanderthal. Lo stesso vale per la razza di Grimaldi, anch'essa estintasi. Lo stesso può dirsi per molti popoli "selvaggi" ancora viventi: essi non si "evolvono", essi si estinguono. Il loro "civilizzarsi" non è una "evoluzione", ma quasi sempre una brusca mutazione che colpisce le loro possibilità vitali. Infatti, per la possibilità di evolvere o di decadere esistono dati limiti. Vi sono specie che conservano le loro caratteristiche anche presso a condizioni relativamente diverse da quelle a loro naturali; altre, invece, in tal caso si estinguono; oppure subentrano mescolanze con altri elementi, nelle quali, in fondo, non si ha assimilazione né vera evoluzione. Per il risultato di queste mescolanze vale piuttosto qualcosa di simile ai processi considerati dalle leggi di Mendel sull'ereditarietà: scomparso nel fenotipo, l'elemento primitivistico si mantiene come una eredità latente separata capace di ripullulare in apparizioni sporadiche, però sempre con carattere di eterogeneità rispetto al tipo superiore.

FONTE E ARTICOLO COMPLETO:http://www.juliusevola.it/risorse/template.asp?cod=121&cat=EVO&page=12

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