Il pensiero di Raymond Aron

apr 18, 2016 0 comments


VITA E OPERE

Il tragitto di Raymond Aron (Parigi 1905 – id. 1983) fu il percorso lineare  di un intellettuale attaccato alla tradizione. Nel 1924, entra alla "Scuola Normale" della rue d’ Ulm con la volontà di brillarvi per vendicare le sconfitte universitarie del padre. Ha in particolare come condiscepoli  Jean-Paul Sartre e Paul Nizan. Arriva primo  al corso di filosofia del 1928 (Sartre sarà respinto ma sarà primo l’anno successivo). Lettore all'università di Colonia (1930), quindi pensionante all’ Accademia di Berlino (1931 -1933), assisterà in diretta all'ascesa del nazismo: «in questa città la crisi tedesca era molo più apparente. Si vedevano i disoccupati. Si era proprio al centro della vita politica. Andavo alle riunioni pubbliche. Evidentemente ho ascoltato Goebbels, che era un oratore e si esprimeva in buon tedesco. Ho ascoltato Hitler, il cui tedesco era spaventoso, e che subito mi ha ispirato una specie di paura e di orrore» (R. Aron, L'etica della libertà, op. cit. ). Di ritorno in Francia, sostiene nel 1938 la sua tesi di dottorato, Introduction à la philosophie de la historie(Introduzione alla filosofia della storia), attraverso cui si sviluppa il problema dei compiti e delle finalità della filosofia della storia in relazione alla vita dell'individuo. Dal 1940 al 1944, Raymond Aron è redattore capo del giornale La France libre, a Londra. Dopo la guerra, non cessa di svolgere parallelamente una carriera di influente editorialista liberale e conservatore ed una, strepitosa, di accademico. È successivamente editorialista a Combat (1946) quindi a Le Figaro, dal 1947 a 1976. Nel 1977, lascia il quotidiano per il settimanale L'Express  a cui collaborerà  fino alla morte. A partire dall'osservazione delle realtà della sua epoca, questo filosofo ha tentato di spiegare l'attrazione esercitata dal  marxismo su molte intelligenze francesi ed europee contro cui egli entrò in conflitto, sulla scorta del fatto che quella potente dottrina socio-economico-politica  gli sembrava smentita  dalla reale evoluzione economica e sociale della Francia e del mondo. Raymond Aron si fece così sociologo al fine polemico e dottrinale di condurre un  raffronto stringente tra il  regime sovietico e comunista da un lato e quello di  tipo occidentale e capitalista dall’altro, con ciò scontrandosi con buona parte dell’intellighenzia francese fortemente sedotta dal pensiero e dalla prassi marxista. La sua analisi è condotta  su tre piani: economico (Diciotto  lezioni sulla società industriale, 1963), sociale (Le lotte di  classe, 1964) e politico (Democrazia e Totalitarismo, 1965). Aron afferma la continuità del pensiero liberale da Montesquieu a Weber, passando  per Tocqueville nel suo lavoroLe tappe del pensiero sociologico scritto nel 1967. Lungo tutto il suo impegno intellettuale  Raymond Aron denuncia l'interpretazione della storia data dai marxisti. Scrittore fecondo e di estrema qualità, sia per quanto attiene al nitore argomentativo stilistica sia rispetto alla precisione e alla profondità intellettuale, fra le sue opere possiamo ricordareLa sociologie allemande contemparaine del 1935 (trad. it. Introduzione alla sociologia tedesca contemporanea, Milella 1980); la già citata Introduction à la philosophie de l'historie del 1938; il famosissimo Opium des intellectuelles del 1955 (trad. it. L'oppio degli intellettuali, Ideazione Editrice, Roma 1988); gli Études politiques del 1972 (trad. it. parziale Il concetto di libertà, Ideazione Editrice, Roma 1997); Penser la guerre. Clausewitz (1977) e le Mémoires pubblicate nel 1978.



IL PENSIERO

Nella sua carriera universitaria, segue con successo irresistibile il cursus honorum tipico delle grandi Istituzioni culturali della Francia e che va da  l'Institut d'études politiquesalla  Scuola nazionale d'amministrazione (ENA) dove insegna a partire dal 1945, fino al Collège de France dove entra nel 1970 per occupare la cattedra  di sociologia della civiltà moderna, passando dalla Sorbona dove è dal 1956 al 1968 e l'École pratique des hautes études che lo accoglie nel 1960. È il grande universitario ai cui corsi si fa la fila, ma anche il “mandarino” tipo, il barone universitario, bersaglio privilegiato della contestazione studentesca del maggio 68. Membro de  l'Académie des sciences morales a partire dal 1963, dottore honoris causa di numerose università nel mondo intero, vincitore di molti premi fra cui il premio Érasme nel 1982. Filosofo e sociologo, docente universitario e giornalista, esperto di politica nazionale ed internazionale, studioso di Aristotele, Marx e Machiavelli così come di Montesquieu, Tocqueville e Weber, Raymond Aron  rappresenta senza alcun dubbio una figura eminente all'interno della cultura politica francese ed in generale europea. Razionale ma non razionalista, predisposto alla discussione e pronto a riconoscere serenamente i suoi errori eventuali, Aron è favorevole alle società fondate sulle libertà economiche e personali, alla pluralità democratica, alla distinzione fra Stato e Chiesa e quindi fra poteri temporali e poteri spirituali. È un pensatore che non ricorre direttamente alla cifra della trascendenza né esplicitamente fruisce del sostegno di dati metafisici: ciò nonostante si oppone ad ogni forma di immanentismo radicale ed è contrario alla radicalità negativa del fanatismo politico e religioso, che in quanto tale nega la politica responsabile e la verità della religione. La laicità del pensiero di Aron è genuina. E non gli impedisce di riconoscere che l'imperfezione umana e le conseguenti contraddizioni che gli esseri umani esprimono sia sul piano individuale sia su quello sociale e politico, sono verità che la religione rivelata afferma. In tal senso una delle sue preoccupazioni costanti è quella di mantenere uno spazio aperto per i principi trascendenti non riconducibili alla volontà umana. La sua vita è stata quella di un intellettuale impegnato, di un testimone attento e partecipe agli eventi del Novecento. Distante da toni o atteggiamenti dogmatici, profondamente persuaso che la trama della storia è leggibile, ma impossibile da incasellare in formule astratte e definitive, Aron è un liberale convinto la cui intransigenza emerge sul piano dei valori ma non su quello degli studi e delle ricerche. Egli mette in evidenza l’origine ebraico-cristiana dell’escatologia marxista, il legame tra il fascino del marxismo e il bisogno di fede degli intellettuali:
                                           
L’escatologia marxista conferisce al proletariato una funzione di salvezza collettiva. I termini usati dal giovane Marx non lasciano dubbi per quanto riguarda l’origine ebraico-cristiana del mito della classe, eletta a causa della sua sofferenza ad operare il riscatto dell’umanità. Missione del proletariato, fine della preistoria grazie alla Rivoluzione, regno della libertà, in tutto ciò sono facilmente riconoscibili i motivi principali del pensiero millenaristico: il Messia, la rottura, il regno di Dio. Non che il marxismo esca sminuito da questi paralleli. La resurrezione delle credenze secolari sotto forma apparentemente scientifica seduce gli spiriti bisognosi d’una fede. Il mito può sembrare prefigurazione della verità, cosí come l’idea moderna può sembrare sopravvivenza di sogni metafisici. L’esaltazione del proletariato in quanto tale non è fenomeno universale. Vi si potrebbe distinguere piuttosto un segno del provincialismo francese. Là dove regna la “Fede nuova”, oggetto del culto è il partito, piú che il proletariato. Nei paesi in cui prevale il laburismo gli operai delle fabbriche, diventati piccoli borghesi, non interessano piú gli intellettuali e non s’interessano piú delle ideologie. Il miglioramento delle loro condizioni di vita toglie loro il prestigio della sofferenza e li sottrae alla tentazione della violenza. (L’oppio degli intellettuali, Editoriale Nuova, Milano, 1978, pp. 73-74)

Ne L’oppio degli intellettuali (il titolo riprende, modificata, la famosa frase di Marx secondo cui la religione è l’oppio del popolo) sottolinea le responsabilità degli intellettuali nella società contemporanea, riprendendo e adattando alla mutata situazione del dopoguerra la polemica di Benda. In questa lettura egli si sente di affermare che il concetto di rivoluzione “non cadrà mai in disuso”, ma osserva preoccupato il persistere del fascino della violenza attraverso il mito della rivoluzione:

Il concetto di rivoluzione, il concetto di sinistra, non cadrà mai in disuso. È l’espressione di una nostalgia che durerà quanto l’imperfezione intrinseca nella società umana e il desiderio degli uomini di riformarla. Non che il desiderio di miglioramento sociale conduca sempre logicamente allo spirito rivoluzionario. È necessaria anche una certa dose d’ottimismo e d’impazienza. I rivoluzionari sono riconoscibili per il loro odio contro il mondo e per la loro mentalità catastrofica; piú spesso ancora peccano di ottimismo. Tutti i regimi sono condannabili, se vengono paragonati a un ideale astratto d’eguaglianza o di libertà. Soltanto la rivoluzione, in quanto avventura, o un regime rivoluzionario, poiché fa uso permanente della violenza, sembrano capaci di conseguire il fine ultimo. Il mito della rivoluzione serve di rifugio al pensiero utopistico, diventa il misterioso e imprevedibile mediatore tra reale e ideale.
La violenza, piú che destare ripugnanza, attrae e affascina. Il laburismo, la “società scandinava senza classi” non hanno mai destato nella sinistra europea, e francese in particolare, gli stessi entusiasmi suscitati dalla rivoluzione russa, nonostante la guerra civile, gli orrori della collettivizzazione e della grande purga. Bisogna dire: nonostante, o: proprio per questo? Le cose a volte procedono come se il costo della rivoluzione fosse segnato a credito anziché a debito dell’impresa. Nessun uomo è tanto irrazionale da preferire la guerra alla pace. Questa osservazione di Erodoto andrebbe adattata alle guerre civili. Il romanticismo della guerra civile séguita a vivere nonostante le segrete della Lubianka. Certe volte viene da chiedersi se il mito della Rivoluzione non giunga a identificarsi, in fondo, con il culto fascista della violenza. Nel finale del dramma di Sartre Le Diable et le bon Dieu, Goetz esclama: “Ecco, il regno dell’uomo comincia. Bell’inizio. Suvvia, Nasty, farò da boia e da carnefice... C’è una guerra da fare, e la farò”. Il regno dell’uomo è dunque quello della guerra? (L’oppio degli intellettuali, Editoriale Nuova, Milano, 1978, pp. 70-71)

L'intelligenza, l'amore per la filosofia e l’ambizione di riuscire avvicinavano  Raymond Aron e Jean-Paul Sartre, ma tutto li ha separati, a cominciare dall'impegno politico. Man mano che Sartre andava verso l’estrema sinistra, Aron si ancorava ad un conservatorismo tanto prudente quanto arcigno. Da un lato, il  genio  prolifico di Sartre, "l'intellettuale totale" secondo la definizione di Pierre Bourdieu, ricercatore frenetico di una morale della libertà il cui magistero accompagnerà molte generazioni di giovani nei loro entusiasmi, speranze e follie. Dall'altro, lo studioso disciplinato, l'intellettuale sobrio e serio se non  noioso, e che sarà l'analista scettico della società liberale. Secondo le parole del filosofo François George, «Aron mostrava la storia com’era, mentre  Sartre la disegnava come avrebbe  dovuto essere». Questi inseguiva il principio di piacere, quello indicava, severo, il principio di realtà. Dopo la morte di Sartre, nel 1980, la rotta  del gauchisme ed il fallimento dei maîtres à penser, le incertezze delle ideologie contemporanee hanno fatto avvicinare  a Raymond Aron molti giovani intellettuali che lo avevano fino ad  allora ignorato se non osteggiato. Dopo la pubblicazione di un libro di interviste, Le Spectateur engagé (Lo spettatore impegnato), nel 1982, e quella delle sue Memorie nel settembre 1983, un omaggio quasi unanime fu  reso al rigore del suo pensiero ed al suo fatalismo ben temperato. Quando morì, nel 1983, la Francia era in preda ad un accesso di "aronismo".

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